Doppiogiochista,
apprendista stregone, Churchill o Forrest Gump prestato alla politica il
presidente statunitense Barack Obama con la mediazione sulle armi chimiche di
Asad (i cui siti solo dieci giorni addietro rischiavano di beccarsi i Tomahawk) e con l’apertura all’ayatollah
Rohani è tornato sotto i riflettori mediatici e all’attenzione degli analisti
politici. Si sa che sul primo cittadino d’America i riflettori restano sempre
accesi, ma a lungo hanno evidenziato carenze, titubanze, errori e omissioni di
un’amministrazione che da tempo naviga a vista sul non facile scacchiere
internazionale e principalmente nel sovraesposto Medio Oriente. La cartina al
tornasole di questo procedere zigzagante è la prassi delle opzioni opposte, estranea
alle tattiche previste dal carnet delle scelte nelle situazioni di grave
instabilità. Da cui ‘guerra e pace’ in Siria come nell’ultimo Afghanistan. Di
sicuro ha colpito la tempistica con cui in spazi temporali brevissimi Washington
dice “bianco e poi nero” con gli annessi scenari che quelle tonalità
comportano.
Oscillazioni - Da qui le tracce
d’incertezza oppure di mero cinismo che hanno caratterizzato le ultime due
stagioni dell’Obama-pensiero, in Egitto altalenante fra l’occhiolino rivolto ai
Fratelli Musulmani e il benestare offerto al golpe bianco del sempiterno
esercito con successiva sanguinosa repressione; mentre sullo scenario siriano ai
missili puntati su Damasco è seguito dietro front, quasi si trattasse d’un
gioco. Questi stessi passi suscitano l’approvazione di chi ne constata il
flessibile realismo e chi all’inverso evidenzia il contorno di scarsa
credibilità assunto dall’attuale establishment statunitense. Secondo altri
osservatori esso s’è ridotto a una dipendenza diplomatica da leader più
determinati che parlano russo, francese o altri idiomi. In tanti concordano su
un aspetto che in ogni angolo del medioriente, e probabilmente altrove, va
consolidandosi in questi mesi: un progressivo e inesorabile svilimento del
ruolo di gendarme del mondo, sorto con la dottrina di Monroe e sedimentato nel
sistema imperialista statunitense.
Segnali - Funzione oggi assai fluttuante,
sia per gli andamenti dell’economia mondiale, con o senza la crisi, sia perché
al Congresso, in tanti stati della Confederazione e nell’orizzonte di molti
yankee questa prospettiva fa rima con problemi e declino. Inoltre le considerazioni
di alcuni analisti (Robert Kuttiner fra loro) ribadiscono perentoriamente come
Oltreoceano non si possa negare la comparsa di una specie d’inquietudine nel
sentirsi potenza militare sempre e comunque disposta a intervenire in ogni
angolo del pianeta. A seguire c’è una crescita dell’orientamento, non diciamo
antimilitarista, ma esplicitamente contrario alla guerra. Lo sostengono taluni
sondaggi fra gli elettori democratici e pure repubblicani. Sondaggi d’opinione
da prendere con le pinze, comunque segnali di cui i commentatori tengono conto
anche fuori dall’immenso involucro a stelle e strisce che sigilla il popolo
nord americano.
Scacchi - E’ chiaro che non basta una
telefonata al volto oggi sorridente del “Grande Satana” per attenuare tutti i
timori di deflagrazione dell’incendio mediorientale. Fra l’altro c’è chi rema
contro: in casa, tutti coloro che mettono in guardia Obama dall’abile
diversificazione del diplomatico Rohani, e da fuori gente come il Netanyahu da
oggi ospite rancoroso della Casa Bianca che è venuto a dir la sua. Né basta uno
spiraglio aperto pur sui temi caldissimi che hanno incrinato gli equilibri
dell’area a trasformare gli statunitensi in immacolati “portatori di pace”. In
ogni caso si prova a leggere fra le righe questa che è stata definita la
“tridimensionale partita a scacchi del presidente Usa”. Si cerca di decriptarne
passi in avanti e indietro, discernere i bluff veri dalle finte che somigliano
alla giocata del pivot capace di schiacciare la palla a canestro. Un colpo
efficace che in più fa impazzire gli spalti. L’unica amara sorpresa che
potrebbe derivare da tante giravolte è scoprirne (il sospetto c’è) un’essenza
funzionale solo alla propria sopravvivenza politica. Attuata, come s’usa fare,
per risolvere le questioni domestiche e gratificare l’autoreferenzialità del
prim’attore.
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