La recente conferma d’un caso di poliomielite riscontrata
in un neonato della Striscia di Gaza vede i responsabili degli aiuti umanitari disponibili
all’avvìo di una campagna di vaccinazione di massa nell’area. La campagna
stessa potrebbe realizzarsi nell’arco di un paio di settimane, ma necessita di
un totale cessate il fuoco che Israele non consente. Il segretario generale
delle Nazioni Unite Guterrez ha dichiarato in queste ore che “il vaccino per la poliomielite è la pace e
un cessate il fuoco definitivo. Ma intanto una pausa dalla poliomielite è
d’obbligo”. Eppure tutto resta bloccato. La malattia è particolarmente
contagiosa, la diffusione avviene per via oro-fecale con ingestione d’acqua e
cibi contaminati o con la saliva e le classiche micro goccioline emesse tramite
starnuti e tosse di soggetti ammalati e portatori sani. Consentirne una diffusione nella Striscia
significa introdurre un’ennesima bomba, assieme a quelle che da undici mesi piovono
dal cielo, su una popolazione affamata, stremata, vagante in un esile spazio di
macerie senza fogne e condutture d’acqua potabile distrutte, come ogni cosa, da
Israel Defence Forces. E questa bomba
sanitaria insiste anche sui confini egiziano e israeliano. A meno che il governo
Netanyahu mediti anche questo genere di afflizione per “sradicare” Hamas e chi gli vive attorno. La polio,
flagello virale a carico del sistema nervoso centrale che può condurre alla
morte o lasciare gravi menomazioni motorie, ha un’incubazione rapida, da una a
tre settimane, e non conosce cure. L’unica soluzione è il vaccino al quale
contribuirono gli studi dei virologi Sabin e Salk. Attualmente due sono i Paesi
dove continua a mietere vittime e tarare persone, soprattutto bambini nei primi
anni di vita: Afghanistan e Pakistan.
Nel primo serie campagne di vaccinazione
risultavano difficili e travagliate a causa della guerra civile degli anni
Novanta e della successiva instabilità conflittuale fra truppe Nato e
insurrezione talebana, e ben poco aiuto giungeva da premier-fantoccio come
Karzai e Ghani. Nel triennio dell’Emirato talebano la situazione non è
cambiata. Il Pakistan, pur fra mille contraddizioni, ha varato dal 2013 un
impegno per debellare la malattia. Non c’è ancora riuscito. Fino allo scorso
dicembre risultavano distribuite trecento milioni di dosi, eppure il virus resiste.
Nel 2015 si registravano 366 casi conclamati, scesi fino a una decina negli
anni seguenti. Ma, ad esempio, nei primi otto mesi del 2024 i contagi risultano
16 e ovviamente ci sono contesti non monitorati. Le gocce salvavita degli
addetti alle vaccinazioni non hanno vita facile. E neppure i somministratori,
oltre cento di loro sono stati uccisi da gruppi talebani. Si sono registrate
violenze e opposizioni, da quelle ideologiche di fondamentalisti che
sostenevano come nel liquido ci fossero alcol o contaminazioni di cibo suino, alle
ire di padri che in Occidente chiameremo ‘no vax’. A metà strada fra il
sospetto e l’ignoranza un certo peso continua ad averlo il ricordo della falsa
campagna anti-epatite promossa da organismi che facevano capo alla Cia, che nel
2010 battevano diverse aree alla ricerca di Osama bin Laden. Così si disse. E
quella diceria, vera o falsa che fosse, ha tuttora eco e presa su certi strati
di pakistani refrattari a cure sanitarie. I luoghi di confine - da Peshawar,
città da decenni sede di decine di campi profughi e centinaia di migliaia di
rifugiati, non solo afghani, a Torkhlam, ma pure a Levante Lahore - vivono
maggiori condizioni di contagio dell’attuale ceppo indicato come YB3A,
proveniente proprio dall’Afghanistan, per il via vai di mobilità, nomadismo e
commercio. Comunque gli angeli dalle salvifiche gocce, intervistati in questi
giorni da Al Jazeera, proseguono la
propria missione: praticano fino a trecento vaccinazioni per un compenso di 2 o
3 dollari quotidiani percorrendo decine e decine di chilometri. Oppure incamerano
5 dollari per 9 ore.
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