Nella meticolosa e reiterata cronaca sul malessere di centinaia, migliaia, decine di migliaia e forse più israeliani verso il governo Netanyahu, la stampa liberal di quel Paese e di ulteriori sponde, ripropone l’immagine dell’altro Israele che s’oppone all’uomo dal ghigno e dal muscolo sempre tesi un po’ contro tutti: i palestinesi considerati terroristi, gli americani tutori inaffidabili, certi alleati e ministri di casa, parecchi concittadini. L’attuale Primo Ministro, che dal 1996 di esecutivi ne ha inanellati ben sei, viaggia sul vento elettorale che vede il suo partito (Likud) vincere e rivincere consultazioni e formare alleanze governative sempre più feroci e oltranziste a braccetto delle componenti più retrive della Knesset. Del resto talune forze un tempo vicine all’ineffabile Bibi, come Israel Beitenu del moldavo Lieberman - suo pluriministro di Esteri, Difesa, Trasporti, Infrastrutture, Affari Strategici - fra le proprie strategie meditavano ed esplicitavano quella ‘pulizia etnica’ verso la componente araba della regione, dentro e fuori Israele. Con tale disegno parecchie figure politiche, militari e anche intellettuali concordano. Però chi osa definire razzista quel progetto riceve immediatamente il marchio di antisemita, come peraltro accade a qualsiasi critica rivolta a Israele. Indubbiamente nello Stato ebraico che la maggioranza vuole per i soli ebrei, esistono voci di dissenso, contro Netanyahu, contro il Likud e magari contro l’operato dell’Idf e del Mossad, ma sono voci della strada, senza responsabilità né eco politiche.
Fra esse le grida più roboanti e disperate in questi mesi sono quelle dei parenti dei prigionieri in mano a Hamas sulla cui sorte pesano gli accordi di scambio che solo in rarissimi caso hanno raggiunto il buon fine della liberazione. Queste persone urlano e denunciano le nefandezze del premier, riempiono le vie di Tel Aviv, ricevono solidarietà per il tormento dei propri cari, recriminano sull’insensibilità del primo cittadino d’Israele, chiedendo la liberazione di fratelli e sorelle ostaggi d’un tragico braccio di ferro. Quasi mai allungano lo sguardo sulla strage che il proprio Stato compie sui due milioni di ostaggi inermi che abitano la Striscia. Tale paradosso è l’immagine di Israele. Anche chi contesta il governo in carica lo fa per interessi diretti: per i parenti che rischiano la vita o per il pericolo corso dalla giustizia piegata a interessi politici, nel caso della riforma proposta nei mesi scorsi. Quasi nessuno ha criticato la linea incarnata anno dopo anno, decennio dopo decennio da ciascuno dei trentasette governi di Tel Aviv sulla questione palestinese, che significa spoliazione dei diritti d’un altro popolo fino alla sua totale oppressione. E’ storia conosciuta anche dai bambini, perché coinvolge soprattutto bambini. Espulsi coi genitori da terra e case, soggiogati, umiliati, straziati con massacri che tanto somigliano ai pogrom che la Storia ebraica giustamente addita e non vuol dimenticare. Fra i bambini d’un tempo ci saranno stati Haniyeh e Sinwar, diventati combattenti (terroristi per la stampa mainstream) in funzione del passato che hanno conosciuto.
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