Stretti come non mai, non solo nel caloroso saluto all’aeroporto di Ankara, i presidenti egiziano Al Sisi e turco Erdoğan si sono rivisti dopo l’apertura fra i due Paesi sancita dalla visita al Cairo dello scorso febbraio che già cancellava dodici anni di polemiche e ghigni ostili. In mezzo la fase delle “primavere arabe”, la loro repressione che ha visto la lobby militare egiziana imporre un proprio uomo, cancellando nel sangue la parentesi della presidenza Morsi, con l’aggiunta della persecuzione della Fratellanza Musulmana e d’ogni raggruppamento politico interno. Erdoğan, che in un primo periodo aveva tuonato contro la sopraffazione subìta dai militanti islamici e chiuso i rapporti con la grande nazione araba, ha nel tempo modulato gli orientamenti esteri. Dal fronte siriano, che lo contrapponeva ad Asad appoggiando i rivoltosi islamisti, compresi gruppi jihadisti pro Isis, a quello libico dove fra truppe regolari e mercenarie l’appoggio alle bande interne ha visto un’altalena di competizione-accordo-concorrenza riguardo a conflitti e alleanze con le strategie estere di Putin. La linea turca cerca di non mollare l’influenza nel Mediterraneo orientale e nel vicino Medioriente, dove la recente guerra di Gaza che coinvolge il sud del Libano ha prepotentemente rimesso al centro la forza regionale iraniana. Sisi, dopo aver consolidato con uccisioni-sparizioni-carcerazioni il controllo interno, s’è proposto fuori di casa come guardiano dell’infuocata area attorno alla Striscia. E’ stato accontentato dall’Occidente aderendo al blocco autoritario regionale che ha nei progetti sauditi ed emiratini - progetti a 360° compresi quelli securitari e militari - un perno utile alla linea di controllo anti iraniana. Nel gioco delle parti fluttuante e dinamico, la Turchia, erdoğaniana e bahçeliana, senza voltare le spalle alla Nato cerca di far sopravvivere un’alleanza di governo, offrendo l’immagine d’una nazione potente che piace alla maggioranza dei concittadini. Dunque, meno ideologia e più sostanza. Che per le strettoie economiche vissute nell’ultimo triennio, fra formule anti inflazione eterodosse su cui s’è incaponito il presidente, ha necessità di ripresa. Negli ossequi e sorrisi di circostanza dei leader ci sono accordi commerciali, investimenti energetici (attorno al giacimento Zohr), i sempre presenti armamenti (i droni da guerra Bayraktar) e nuove rotte di trasporti e turismo. Piccoli fiati se si guarda la macro economia, ma ai due sta bene così, per passare dai dieci ai quindici miliardi di dollari d’affari nel prossimo quinquennio. Augurandosi lunga vita biologica e politica. Fra l’altro, visto che tutto scorre e cambia, se mai ne dovesse avere bisogno Erdoğan riceverà i buoni uffici dell’omologo egiziano per inserirsi nell’assise dei Brics, che all’iniziale adesione del 2009 di Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, da cui l’acronimo, ha visto aggiungersi Egitto, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Etiopia. Proprio così: quel che la geopolitica blocca, la geoeconomia sdogana. Mentre il fronte europeo e il suo membro più illustre, la Germania, che si lecca ferite economiche e d’instabilità elettorale, possono meditare sui grandi rifiuti posti per oltre un decennio da Angela Merkel, e di recente dai suoi epigoni, all’ingresso turco nella Ue.
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