lunedì 30 settembre 2024

Medioriente, i buchi e il ‘nuovo ordine’ di Tel Aviv

 


Definire “ordine” in Medio Oriente lo sfacelo, le distruzioni, i massacri, i lutti, l’angoscia che ne derivano  può appartenere solo al modello perverso con cui Israele ha costruito la sua storia recente. Che non è quella dei molti e sempre più tragici governi a guida Netanyahu, ma la comparsa di uno Stato coloniale e guerrafondaio sostenuto dalla maggioranza d’un popolo che non insegue la pace ma il sopruso. L’attuale gruppo dirigente di Tel Aviv mostra l’abilità di sfruttare a suo vantaggio non solo la protezione statunitense - che è politica e diplomatica, bellica e finanziaria, tecnologica e cibernetica - ma le opportunità offerte da geo-strategie, real-politik, storia politica, storia  delle religioni e delle conseguenti tensioni fra le fedi. Una per tutte, il millenario contrasto fra sunnismo e sciismo, s’è tradotto negli ultimi decenni in tipologie di Stati che mirano all’egemonia regionale, dal versante cultural-teologico a quello economico e geostrategico, comprensivo di alleanze interne alla Umma ed esterne a essa. Arabia Saudita, Turchia, Iran si contendono il ruolo e le dinamiche che coinvolgono alleati più o meno prossimi ai loro disegni. A riaccendere focolai mai spenti sono state le rivolte definite “primavere arabe” contro regimi autoritari, ma soprattutto il profondo solco scavato dalla guerra civile siriana. Trasformata in conflitto generalizzato, comprensivo di progetto jihadista da quello di marca Isis alla guerriglia fondamentalista con tanto di combattentismo ideale e mercenario, di mercenariato di professione mosso da potenze esterne, di eserciti nazionali messi sui campi di battaglia a combattersi o schiacciare forze avverse peraltro cangianti. Nella ‘macelleria umana’ che è stata questa guerra (2011-2018, ma alcuni fronti sono tuttora attivi, con 500.000 vittime, tre milioni di feriti, dodici milioni di sfollati) – dalla quale Israele s’è tenuto decisamente a distanza – Pasdaran e soprattutto Hezbollah hanno scelto d’invischiarsi a lungo e profondamente, con le conseguenze che i sedimentati odi vissuti e trasmessi alle popolazioni coinvolte fra Siria, Libano, Iraq, Turchia kurda s’incrementassero, proprio fra islamici d’ogni tendenza. 

 

Non c’è da stupirsi, dunque, se in Iraq c’è chi festeggia l’uccisione di Nasrallah, seppure per mano dell’aviazione israeliana, né se nei quartieri centrali o settentrionali di Beirut si palesi la soddisfazione per l’azzeramento dei vertici dell’ingombrante Partito di Dio. Nella politica regionale, il premierato bellicista di Netanyahu punta sull’Islam considerato buono (Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto), utile a sostenere la sua linea di oppressione dei palestinesi, e da lui contrapposto all’Islam definito “terrorista” quello sciita di Teheran, Dahieh, Sana’a sebbene i maggiori finanziamenti del fondamentalismo dell’Isis provengano dalle petromonarchie con cui si sono progettati  i cosiddetti ‘Accordi di Abramo’. Abilissimo l’establishment israeliano ha atteso che gli islamici si scannassero fra loro nel ribattezzato Daesh (ma era accaduto anche in altre epoche e in circostanze diverse), ha tessuto patti con alcuni Paesi arabi per il riconoscimento di Israele (in barba all’irrisolta questione palestinese), ha raso al suolo gran parte dell’abitato della Striscia di Gaza come vendetta per l’attacco di Hamas che aveva ucciso 1.200 kibbutzim ma ha moltiplicato per trentacinque la sua “giusta vendetta”, ammucchiando finora 42.000 cadaveri di gazesi. E pur proseguendo una “rifondazione della Striscia”, riconvertita da prigione a cimitero di persone e cose, ha avviato l’aratura del terreno libanese per seminare i suoi frutti. Magari non dissimili da quelli incentivati durante l’occupazione del Libano nel 1978, col sedicente Esercito del sud del maggiore Haddad, oppure approvando il maquillage di rinascita attuato da Rafiq Hariri, un Libano che tornava a essere la culla di affarismo e corruzione. Versione meno appariscente di quella di trent’anni prima tutta jet-set, dolcevita, attori ed evasori, mafiosi e criminali, comunque funzionale a un quadro geopolitico legato a intrecci assai più sofisticati di quelli conosciuti negli anni Sessanta.

 

Un comune denominatore è sopravvissuto nel tempo su quel territorio: le spie. Assai più coperte di quelle famose e diventate leggenda come Kim Philby - agente britannico di nome, sovietico di fatto - uscito allo scoperto con una donna, l’ebrea Salomon, che lo smascherò e lo bruciò proprio a Beirut nel 1963, facendolo finire comunque dove Philby voleva: nella Mosca comunista, di cui si dichiarava sostenitore. Le spy stories letterarie s’ammantano sempre di un’aria romanzata, ma nelle varie epoche i loro legami con la  realtà politica risultano sempre multisfaccettati  e, come i diamanti, brillano da più lati. La geostrategia del Mossad sta mostrando gli effetti benefici per il governo di Tel Aviv contro alcuni nemici ritenuti più temibili del Movimento di Resistenza Palestinese, appunto Hezbollah e Pasdaran. Il primo finisce decapitato del suo Gotha dirigente militar-politico proprio per opera delle spie. Infiltrate o attivate per corrompere, acquisire, acquistare informazioni e persone come merce in un bazar. Questo dicono tutte le esecuzioni mirate delle scorse settimane e il grande inganno dei cercapersone commissionati a una società creata su misura dall’Intelligence israeliana che prima di far esplodere, uccidere, accecare, mutilare migliaia di cittadini, prossimi a centinaia di attivisti del Partito di Dio, hanno infilato informazioni nei suoi database. Per settimane e mesi, forse anni. Ed è questo il rovesciamento del fronte in uno scontro che Israele sta imponendo e vincendo con la forza d'una spaventosa quantità di denaro messa al servizio di strumenti e personale usati in una battaglia definita difensiva che è invece offensivissima. E attualmente vincente, visto che oltre confine Hezbollah può avere gettato migliaia di razzi, resi inoffensivi dall’ennesimo gioiello della tecnologia: la Cupola di ferro. Missili in ogni caso non paragonabili alle superbombe che disintegrano palazzi e penetrano bunker, come si vede nella Beirut resa in dieci giorni spettrale più di quindici anni di guerra civile.

 

Ma l’impari forza che produce reazioni di facciata e blocca il nemico maggiormente temuto, l’Iran khomeinista, è tutta interna a una Repubblica Islamica dove il khomeinismo è in difficoltà. Sia per i tempi mutati, perché la gioventù combattente, clericale o meno, non è quella che s’immolava sul confine iracheno contro Saddam. Le guerre di trincea non tramontano, ma sono logoranti e per combatterle c’è bisogno di chi mette in conto di potersi sacrificare. Una tipologia di soldati che non esiste quasi più, ovunque, superati dall’iper professionalità ancora una volta tecnologica o dalla professione a pagamento, che dura finché dura. Forse neppure Israele di queste ore, gasato dai successi, sceglierebbe d’infilarsi nello scontro di terra, neppure in Libano, figurarsi in Iran. Nella minuscola Striscia quest’opzione non ha prodotto gli effetti rapidi e sperati. Mentre i reparti d’élite iraniani dedicherebbero la vita a difesa della nazione, ma ancor più del proprio status ed è questo l’altro buco in cui s’insinua da tempo il baco dei servizi israeliani. Entrando nelle crepe del vecchiume del regime degli ayatollah, rappresentato non solo da Ali Khamenei malandato ma tuttora vivente e al comando, ma da quel clero rigidamente schierato col passato khomeinista. Che risultò scaltro e vincente ai tempi delle ideologie, battendo il marxismo ingessato del partito Tudeh e quello pseudorivoluzionario dei Mujaheddin del popolo, ma che ha chiuso i rapporti con la sua gente. Non ha più parlato ai giovani, anziché motivarli li ha repressi, tiene all’angolo le donne, ha paura di ogni novità. E poi reprime, impaurisce, uccide. Sono i limiti d’un sistema asfittico che avvicina nemici vecchi (ex monarchici, mujaheddin) e nuovi, in cui può trovare appoggi chi vuol combattere Guida Suprema e Pasdaran. Non da oggi riformisti e conservatori nella politica interna si fronteggiano, si scontrano, patteggiano. Da decenni il durissimo embargo e la crisi economica creano spaccature ma anche singulti d’orgoglio a difesa della nazione. Eppure la compattezza sembra vacillare fra gli stessi Guardiani della Rivoluzione che hanno subìto l’assassinio di Haniyeh in casa propria e una sequenza di agguati eccellenti (agli ingegneri del nucleare) fin dentro Teheran. Il sospetto è un’ombra che s’allunga su un Paese tutt’altro che granitico, tanto da dover rivalutare le mosse dell’asse resistente opposto da quasi un cinquantennio “all’entità sionista” e all’islam compromesso che dimentica Quds.

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