venerdì 26 febbraio 2021

Turcomachismo e femminismo militante

Nella Turchia che conta il quadruplo dei femminicidi registrati in Italia (471 nel 2020) il ruolo politico delle donne si scontra con una regressione ampiamente cavalcata dall’islamismo conservatore al potere. In realtà, in una classifica della vergogna che calcola quegli omicidi in rapporto al numero degli abitanti siamo preceduti anche da nazioni della ‘civilissima’ Europa, cattolica e non: Lituania, Cipro, Ungheria, Finlandia, Germania, a dimostrazione di quanto sia radicata ed espansa l’internazionale machista. Storicamente la patria messa su da Atatürk aveva concesso il voto alle concittadine nel 1934, ben prima che l’ottenessero le donne di varie democrazie europee. Però il panorama culturale, psicologico, socio-politico, religioso non aveva contribuito a un radicamento dell’emancipazione né tantomeno della liberazione. E se queste hanno faticato – e tuttora faticano – negli orizzonti politici orientali e occidentali le donne anatoliche, che nell’ultimo ventennio hanno inseguito il velo a mo’ di simbolo identitario, hanno anche trovato in quel sistema un freno per il loro ruolo. Per opera del mondo maschile, oggi incarnato dal presidente Erdoğan e dal partito di maggioranza, Akp, ma in altre fasi da padri laici e modernisti, che lanciavano l’economia prima liberale poi liberista - İnönü, Özal, Demirel - tutti proiettati a sostenere la nazione, a cercare la retta via, cui intitolavano anche raggruppamenti parlamentari. Del resto l’attuale partito-regime che s’ispira a “Giustizia e Sviluppo” li insegue e promette, ma non stabilisce un progresso collettivo né tantomeno di genere. Lo denunciano le avversarie bollate quali terroriste, non più solo se militano nei gruppi filo kurdi, ma nelle stesse file dell’opposizione storica. Qualcuna poi è vista come una sciagura per il buon nome delle donne turche. E inseguita dalle invettive anche di uomini delle Istituzioni perché osa attaccare l’uomo che vive per la Turchia: Recep Tayyip Erdoğan.

 

Una di queste è Canan Kaftancioglu, nelle elezioni del 2019 che sono costate all’Akp l’amministrazione di Istanbul, alter ego del sindaco Imamoglu, capace di battere il candidato filo governativo per ben due volte, anche nel voto ripetuto per presunti brogli. Sono entrambi del partito repubblicano, ma a dimostrazione d’un maschilismo radicato un po’ ovunque, questo schieramento non ha esaltato granché il contributo offerto da Canan al compagno di schieramento. Del resto nell’orizzonte interno solo il Partito Democratico dei Popoli teorizza e mette in pratica la parità di genere, creando co-presidenti e un’equa rappresentanza parlamentare fra uomini e donne. Una scelta seguìta dal potere nella sua ondata repressiva, incarcerando ormai da un quinquennio indifferentemente i deputati dei due generi. Della Kaftancioglu, che nel Meclis riceve gli scherni dei colleghi per essere una dichiarata femminista e sostenitrice del movimento LGBT, dicevamo che ha preso di petto l’intoccabile. L’ha denunciato alla magistratura per averla definita “terrorista”, una mossa che ha speranze minime di riuscita per il duplice asservimento dei giudici all’esecutivo e per il repulisti di magistrati indipendenti avvenuto dopo il tentato golpe del 2016. Alla fine questo passo potrebbe rivelarsi un boomerang: rischia d’essere annoverata fra coloro che denigrano il Capo dello Stato, pendenze che nel Paese hanno ampiamente superato i diecimila casi. Fra l’altro la deputata repubblicana è già stata colpita dallo staff presidenziale: una denuncia contro di lei del responsabile della comunicazione Altun s’è conclusa con una condanna in primo grado a nove anni di reclusione. Motivo: insulti al Presidente della Repubblica. Poiché durante il dibattimento Kaftancioglu non ha manifestato alcun pentimento, se l’appello confermerà la sentenza anche per la deputata femminista s’apriranno i battenti della galera. Determinata Canan non demorde e, come altre donne, dà un esempio di coraggio e libertà di pensiero. Che sempre infastidiscono il potere.

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