Definire regime, e regime losco, l’attuale cricca di militari,
poliziotti, giudici, mukhabarat e baltagheyah (per chi non lo sapesse gli
ultimi due nomi stanno per agenti dell’Intelligence e picchiatori di strada
prezzolati) che governa l’Egitto è l’evidente conseguenza dell’intrigo che
manifesta l’apparato statale d’una nazione pur gloriosa. In realtà la lobby
delle stellette ha dettato la recente storia di quel Paese dai primi anni
Cinquanta, ma pur fra la poca luce e le tante ombre non era scesa così in basso
come nella gestione instaurata da un uomo dal sorriso mite e dalle trame
sporchissime: Abdel Fattah al Sisi. La sua persona, i suoi ministri
(principalmente l’intoccabile dell’Interno Ghaffar, quello degli Esteri
Shoukry, della Difesa Zaki e prima di lui il fedelissimo Sobhi, della Giustizia
Hossam) risultano garantiti contro ogni azione di giustizia, interna ed
esterna, per comportamenti criminali compiuti nell’esercizio di funzioni
repressive più che politiche. Tutto ciò è assolutamente legale, ratificato per
legge dalla scorsa estate, quando venne fatto votare all’addomesticato
Parlamento una proposta sottoscritta quasi all’unanimità (solo otto i voti
contrari) che rendeva imperseguibili costoro e i propri servitori responsabili
delle stragi e del terrore seminati dopo il golpe bianco del 1° luglio 2013.
Quel terrore sigillato dall’eccidio della moschea di Rabaa e
ramificatosi con tutte le persecuzioni dell’attivismo politico,
dell’informazione giornalistica, della difesa dei diritti sino alla persecuzione
perfino di chi fotografa, filma o semplicemente parla bollandolo come “spia”. Oltre quarantamila egiziani sono sepolti nelle
galere vecchie e di nuova realizzazione, fra loro nomi noti e semplici cittadini,
della cui sorte i parenti non sanno nulla. In questo clima da “colonna infame”
giudici e boia possono rendersi protagonisti d’ogni angheria che conservano
ruolo e forcaiolo scopo finale sia quando condannano, sia nelle situazioni in
cui la sorte di chi finisce nel loro mirino è segnata da esecuzioni
extragiudiziarie, come nel sanguinoso caso di Giulio Regeni. La protervia di
questo regime gli fa rispondere ai pubblici ministeri italiani, che la scorsa
settimana additavano sette agenti della National Security del Cairo come
sospettati del rapimento dello studioso, che “nel regime egiziano non esiste un registro dei sospettati” e
pedinare una persona, com’essi facevano con Regeni, “rientra nel proprio
lavoro”. La supponenza del ‘sistema al Sisi’ alimentata dalla vile
subordinazione dei governi italiani, per nulla fermi nel contestare
politicamente l’assassinio del nostro connazionale, potrebbe produrre a breve
una diretta difesa dell’omicidio di Stato, per ragioni di sicurezza nazionale.
Ai carnefici del mondo non manca mai la faccia.
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