Il passo con cui, in perfetta solitudine, il procuratore di Roma
Pignatone e il vice Colaiocco indicano cinque ufficiali della Sicurezza
nazionale e dell’Investigazione giudiziaria egiziana e li iscrivono sul registro
degli indagati, rappresenta un momento importante nel percorso di giustizia per
l’omicidio di Giulio Regeni. Percorso in salita, perché gli inquirenti dovrebbero
ricevere il conforto dalla politica nazionale che finora non c’è stato. Si
potrebbe formulare una richiesta di estradizione che difficilmente verrà raccolta
sull’altra sponda del Mediterraneo visto ciò che hanno mostrato i vertici del
sedicente Paese amico. I giudici del Cairo non solo non hanno collaborato coi colleghi
italiani, ma ossequiosi con la politica interna hanno praticato un boicottaggio
sistematico d’ogni pratica inquirente. I cinque uomini indagati, pur divisi da
una scala gerarchica, sono comunque semplici esecutori. Il generale Sabir Tareq
risulterebbe il supervisore dell’operazione Regeni, Magdi Sharif Abdlaal, il
coordinatore. Osan Helmy e Ather Kamal, avrebbero ingaggiato l’ambulante-spia
Abdallah che lo studioso intervistava in qualità di rappresentante sindacale
della categoria. Mahmoud Najem, è un volgare scherano di Helmy. Bastano
costoro? Certo che no.
Questi sono l’anello basso e intermedio del sistema repressivo che
il presidente-generale al Sisi ha tessuto fra amici e parenti, nonostante ciò
che aveva dichiarato pubblicamente in più occasioni su famiglia e nepotismo. Secondo
quanto si vocifera insistentemente fra l’opposizione al regime, quella
carcerata e quella esule, proprio uno dei suoi rampolli è al corrente di certe operazioni extragiudiziarie
semplicemente perché le direttive partono dall’ufficio che presiede. E’ il
maggiore dei figli di papà che ha fatto carriera - e che carriera - nella
struttura dove il genitore s’era formato prima di diventare, peraltro sotto la
presidenza dell’islamico Morsi, ministro della Difesa. Si tratta di una delle Intelligence
un tempo definita State Security
Investigations Service, con oltre centomila dipendenti, e dopo la rivolta
di Tahrir trasformata in National
Security Agency con un numero doppio di agenti e collaboratori. Beh lì,
tanto per far capire le intenzioni claniste negate a voce ma ribadite da uno spirito
di doppiezza, papà Sisi ha infilato il primogenito Mahmoud, salito velocemente
ai vertici dell’apparato e ottima garanzia per suo padre che, come ogni
dittatore mostra tanti amici, ma teme quelli che amerebbero il suo posto.
Che gli interessi di famiglia si dovessero sviluppare negli apparati
della forza, perno della lobby militare egiziana, lo conferma il percorso del
secondogenito Mustapha, piazzato nell’organismo delle Informazioni generali, quello
tristemente noto col termine mukhabarat. La
struttura, diretta negli ultimi anni della presidenza Mubarak da Umar Suleiman,
un boia dalla faccia triste, si caratterizzava per le pratiche di sequestro,
tortura, sparizioni di oppositori e semplici cittadini. Questi finivano nelle grinfie
di quegli agenti che fanno ampio uso di delatori o provocatori prezzolati come
Abdullah, il rappresentante sindacale degli ambulanti che ha venduto ai mukhabarat il giovane studioso di
Funicello. Anche Mustapha ha compiuto una carriera rapida e brillante, non è al
vertice ma riveste comunque la carica colonnello della macabra struttura. Mentre
l’unica figlia Aya è moglie del figlio d’un generale amico di Sisi, Khaked
Fouda, il terzo rampollo del presidente, Hassan, in predicato per la
professione diplomatica è, per ora, solo marito della figlia di Mahmoud Hegazy,
capo di Stato maggiore del famigerato Consiglio Supremo delle Forze Armate, la
struttura che durante le fiammate di Tahrir ha gestito, insanguinando le strade
con centinaia di morti, la fase della caduta di Mubarak fino alle elezioni del
giugno 2012. Anche il vecchio raìs, oggi plurinovantenne e scampato a condanne
a morte ed ergastoli, aveva collocato qua e là i figlioli Alā e Gamāl, ma non
negli apparati di esercito e polizia.
Il primogenito è un imprenditore, un tempo favoritissimo
dal padre e dai sodali diventati suoi ministri come Shafiq. Quest’ultimo nella
rivolta del 2011 fu accusato di accaparramento di beni pubblici tramite le
cariche ricoperte in qualità di generale dell’aeronautica. Con lui Alā gestiva
una serie di traffici corrotti e ruberie a danno dell’erario nazionale. Il più
giovane Gamāl, invece, s’era speso nella sfera pubblica e nelle intenzioni
paterne, avrebbe dovuto subentrargli alla presidenza, a coronamento di
quell’eredità del potere che il clanismo mediorientale ha istituzionalizzato. Anche
Sisi, da militare bugiardo che fa il contrario di ciò che afferma, ha pensato
al futuro dei virgulti di casa e al proprio presente. E poiché d’intrighi s’è
macchiato, e li ha suggellati col sangue d’una parte della cittadinanza, ha
piazzato i cresciuti pargoli nelle strutture che contano per la propria
sicurezza più che per quella nazionale. Come premettevamo il generale teme di
finire spodestato, magari da un golpe bianco o armato che sia, ordito da
qualche collega. Fedeli finora gli son stati Sidqi Subhi, ex ministro della
Difesa ora in pensione, il generale Abbas Kamel, custode di tanti suoi segreti,
Faraj Shehat, direttore dei Servizi militari, Mahmoud Shaarawi, ex direttore
della National Security, ora passata ad Hamid Abdallah, Mohammed Farid Tihami, responsabile
apparato delle Informazioni generali, dove lavora Mustapha. E il ministro Magdi
Abdel Ghaffar sodale in tanti affari, compreso il caso Regeni. E qui che i pm
italiani troverebbero le motivazioni degli omicidi politici che funestano
passato e presente d’Egitto.
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