Sempre, e come sempre, in alto mare la conta dei voti dopo le
elezioni afghane. Tranne alcune province, dove peraltro i risultati sono
confortanti per alcune figure impegnate a difendere i diritti delle donne come
la senatrice Belquis Roshan rieletta a Farah, molte presentano ingorghi e
blocchi allo scrutinio. Addirittura in quella di Kabul incombe la proposta, avanzata
da un’agenzia politica, di annullare per irregolarità un milione di voti. La Commissione
Elettorale Indipendente ha fatto sapere che sorvolerà sulla richiesta che
avrebbe dovuto portare a un ritorno alle urne già da due settimane. Al
contrario fra qualche giorno la IEC dovrebbe certificare la bontà di seggi e
voti nella capitale. Del resto le lamentele avanzate da quest’agenzia
risultavano vaghe, non era descritta nei dettagli nessuna fra le accuse di
frode, e il presidente della IEC ha tacciato l’iniziativa come disgregante
rispetto al ‘volere popolare’. Peraltro la stessa commissione aveva già
riscontrato ritardi sul voto parlamentare in dodici province.
Questi ritardi appaiono una minaccia per le elezioni
presidenziali previste per il prossimo aprile. E rimandare la consultazione di
primavera provocherebbe un gran danno al governo Ghani tuttora impegnato sul
doppio terreno di scontro e trattativa coi taliban. Se ci fosse ancora chi
nell’ipertrasformismo della geopolitica si stupisse di quello che sembra un
doppio gioco, ma non lo è da ambo le parti, può venir tranquillizzato da quanto
appura l’ennesima inchiesta del prolifico network di ricercatori afghani che
apre un’ulteriore finestra sulle relazioni fra due fronti opposti che risultano, invece, tolleranti e collaboranti.
Tranne ammazzare periodicamente un po’ di civili, la cui sorte è ripetutamente
ignorata dagli uni e dagli altri. Se si va indietro nel tempo il comportamento
talebano dagli anni dell’occupazione statunitense (2001) e poi Nato (2003) va
plasmandosi alle varie situazioni. All’epoca della riorganizzazione sotto il mullah
Omar (2003-05) il movimento si proponeva come entità di raccolta e organizzazione
dell’insorgenza contro i nuovi occupanti.
Inoltre, con una presenza sul territorio, i turbanti riescono a
usare il vizio della corruzione amministrativa come punto di forza a sostegno
del proprio programma antigovernativo e di legame con le comunità locali. Dal
2006 viene elaborato una sorta di codice di condotta che discetta su parecchie
questioni. La precedente lotta indiscriminata alla scuola si trasforma in
disamina della scuola stessa che viene combattuta solo se si distacca dai
princìpi islamici, affermati ovviamente secondo un’interpretazione di parte. Dal
2009 i talebani si rapportano al ministero dell’Educazione per elaborare un
certo andamento dell’istruzione. All’epoca nel mirino fondamentalista entrano le
Organizzazioni non Governative, i cui contatti con la popolazione devono essere
autorizzati dalla leadership della Shura. Dal 2014, quando s’è consolidata una
presenza stabile del cosiddetto Isis afghano (di fatto talib dissidenti), la
cooperazione fra strutture governative e talebani è risultata frequente ed
evidente. E non parliamo di altri “servizi” che s’integrano e si sostituiscono.
Ecco un aggiornamento fornito dai ricercatori.
Negli ultimi mesi a Ghazni gli studenti islamici hanno raccolto
pubblicamente le tasse, a Kunduz inviano bollette elettriche ai clienti e
riscuotono gabelle dai trasportatori che passano per Zabul. Nell’Helmand
finanziano moschee, a Logar decidono assunzioni o licenziamenti di insegnanti
basandosi sui loro curricula. Stiamo parlando di province della nazione
afghana, non dei territori delle ben note Fata, governate in tutto e per tutto
dai clan talebani. Questo spiega
chiaramente gli assalti armati che mettono in scacco quei capoluoghi di
provincia dove i soldati di Kabul si sentono totalmente estranei. E’ bene
ricordare che città come Kandahar, sulla carta sotto il controllo degli uomini
Ghani, in realtà non lo sono affatto. E non è che il business presente sul
territorio resti fuori da un simile contropotere. Nel 2016 quattro compagnìe di
telefoni cellulari (due sono statunitensi, una è saudita), che distribuiscono
le comunicazioni a venti milioni di afghani sui trenta registrati ufficialmente,
hanno pagato una “tassa” per proseguire i propri affari. La minaccia era il
danneggiamento delle antenne di ripetizione.
Quest’anno un
documento governativo ammetteva che nel territorio dell’Uruzgan l’interesse
talebano si focalizzava su salute e sicurezza, quindi chi pagava loro il tributo poteva
accedere a quei servizi. Se si va a una lettura dei numeri forniti dal rapporto
annuale del Sigar (Special Inspector General Afghanistan Reconstruction’s) dietro
l’affermazione che il 78% delle province afghane è sotto il controllo
governativo c’è da notare che il 66% di
quel territorio vede una presenza talebana a vari livelli. Così seppure nella
graduatoria delle definizioni si confrontano le aree a pieno controllo dell’una
e dell’altra componente, la governativa supera quella talebana, ma la percentuale
più alta di territorio risulta quella contesa. Osservando la scheda allegata, nel
pur ampio settore verde - scuro quello a controllo governativo, chiaro a
influenza governativa - un’ampia fetta di popolazione paga, a vario titolo, un
tributo ai talebani che, comunque, in quelle aree riescono a riscuoterlo. Ciò
che gli analisti definiscono una ‘presenza ombra’ costituisce uno degli aspetti
più inquietanti dell’Afghanistan della sbandierata normalizzazione attraverso i
‘colloqui di pace’.
Nessun commento:
Posta un commento