Nella tenzone a distanza,
più o meno ravvicinata, per sancire un’egemonia su un tratto sempre più vasto di
Medioriente che va dal Mediterraneo alle province afghane, il confronto fra il
sunnismo filo saudita e lo sciismo para iraniano amplia i propri orizzonti. La
guerra in atto da tempo sul territorio siriano, ovviamente quella combattuta
per interposte milizie, e il più recente conflitto yemenita aggiungono o possono
aggiungere ulteriori scenari. In questi giorni gli osservatori discutono del
caso libanese, che mostra il premier Hariri scegliere, o digerire forzatamente la
scelta con tanto di propria cattività gestita dalla monarchia Saud, di riadattare
ciò che aveva attuato nei mesi passati. Un governo da lui presieduto che, come
accade da anni in quel Paese, comporta un compromesso fra il suo
movimento-partito a maggioranza sunnita, le minoranze cristiane e druse, la
cospicua componente sciita di Hezbollah. I cui referenti (Hariri medesimo,
Aoun, Jumblatt, Nasrallah) continuano a dirigere le forze di appartenenza in quel
che è l’unico governo possibile nella piccola nazione assediata dai tanti
interessi presenti nel circondario, con occupazioni straniere e cupa memoria
delle guerre civili trascorse. In aggiunta a una ricaduta del Paese dei cedri
nel caos del conflitto interno, visto di buon occhio dagli appetiti geopolitici
di attori vicini e lontani, c’è l’orizzonte di una nazione in guerra perenne,
l’Afghanistan, egualmente coinvolta nel contrasto fra sunnismo e sciismo che è
solo parzialmente un eterno conflitto religioso.
Fra gli scenari occupati
dal jihadismo mondiale, il Paese dell’Hindu Kush è stato laboratorio di
svariate versioni di scontro col neoimperialismo occidentale e coi governi collaborazionisti da
lui inventati. Certo, l’occupazione militare del territorio e il suo controllo
geostrategico dal cielo (tutt’ora ben conservato dagli Usa) incrementa il
concetto di lotta di liberazione nazionale incarnato dai talebani della prima
ora (1996-2001) e proseguito dagli attuali epigoni. Il loro progetto incentrato
sull’Emirato Islamico, guarda a confini nazionali propriamente dati. Conserverebbe,
insomma, le attuali 34 province con l’unica contraddizione del cosiddetto
Pashtunistan, area storicamente abitata dall’etnia pashtun a cavallo del
confine afghano-pakistano, che ripercorre la divisione coloniale tracciata a
fine Ottocento dalla Linea Durand. E comprenderebbe anche il Balucistan, una
vastissima zona dell’Iran meridionale. Il Pashtunistan rientra nel più grande sogno
del Califfato che sovrasta le odierne frontiere statali, obiettivo dell’Isis
nell’esperienza lanciata tre anni fa fra Siria e Iraq, e di chi gli fa il verso,
appunto in Afghanistan (il gruppo Wilayat Khorasan) e in Iran (quello Jandullah).
Il fondamentalismo sunnita, che trova il sostegno teorico in certi predicatori
wahhabiti radicati in Arabia Saudita e nel deobandismo di madrase pakistane,
continua i suoi percorsi ideologici a supporto di conseguenti operazioni
politiche e militari. Così l’Afghanistan, dove la guerra non è mai finita,
conosce ulteriori percorsi e quella che anche organismi internazionali indicano
come “fase di stallo” va decriptata e letta con le evoluzioni delle diverse
tipologie dello scontro in atto.
La documentazione
offerta dall’Ispettorato generale per la ricostruzione dell’Afghanistan
(Sigar), che parla di momento di immobilità nelle contrapposte strategie di talebani
e forze Nato, con una conservazione fino allo scorso agosto delle aree
controllate (Nato e ANF oltre il 60% delle province con 20 milioni di abitanti;
taliban circa il 40% del territorio, con 3,7 milioni di abitanti nelle zone
direttamente controllate e 8 milioni in quelle con un’influenza instabile) si
riferisce a una parte della contesa. Limitata, nei mesi passati, dalle
trattative coi ‘talebani ortodossi’ che ora sembra naufragata, visto che al
recente quadrangolare tenutosi in Oman fra esponenti afghani, pakistani, cinesi
e americani i turbanti non hanno voluto partecipare, presi come sono dalla
sfida a distanza ravvicinata con chi gli fa concorrenza. A ingarbugliare ancor
più l’orizzonte conflittuale contribuiscono nuove unità armate come quella
hazara della Divisione Fatemiyoun, impegnata in Siria e da poco tornata nella
provincia di Bamian. Stanchi di essere solo bersagli di attentati (come quelli
subìti nei mesi scorsi nelle proprie moschee) i membri di questa comunità
possono passare dalla difesa all’attacco. Mentre il quadro generale vede
naufragare non tanto l’idea di nazione, mai nata perché forgiata da Washington
come Stato-fantoccio, ma la stessa coesistenza fra etnìe. E la strada percorsa
e sfruttata a proprio vantaggio trent’anni addietro dai sanguinari Signori
della guerra, può riaffacciarsi dietro le manovre, occulte e palesi, dei
competitori regionali saudita e iraniano.
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