Sei morti. Destinati a
salire, non solo per le condizioni disperate di molti dei duecento feriti, ma
per ulteriori scontri che si preannunciano sanguinosissimi. Eppure si è
trattato di corpo a corpo: i bastoni dei manifestanti contro i manganelli dei
poliziotti pakistani, con l’aggiunta ieri delle pallottole di gomma,
responsabili sicuramente delle uccisioni. Il governo, che finora ha escluso
l’intervento dell’esercito, sta usando i reparti speciali dei Rangers che entro
il 3 dicembre dovrebbero riportare l’ordine. Ma gli osservatori prevedono un
aumento del conflitto. C’è già stata una settimana di protesta, partita con
sit-in organizzati dagli islamici radicali del gruppo Tehereek-i-Labaik Ya Rasool che nella zona periferica di Feizabad hanno
bloccato l’ingresso nella capitale non solo del traffico privato, ma delle stesse
merci. Ora l’insubordinazione s’allarga alle popolatissime Lahore e Karaki e fa
temere il peggio. Il crescendo degli ultimi giorni mostra il consenso acquisito
dai conservatori islamici in un Paese ad altissima tensione sociale e
religiosa, sebbene la gran massa della popolazione (200 milioni di abitanti,
con uno dei tassi di crescita demografica fra i più elevati al mondo) sia
musulmana. Ormai da decenni il Paese si misura sull’interpretazione da dare
all’Islam, sul rispetto della tradizione e trova nel fondamentalismo deobandi
un substrato favorevolissimo all’estremismo religioso. Divenuto terreno di coltura
del jihadismo degli studenti coranici delle madrase: i ben noti taliban.
Le proteste di questi
giorni sono la conseguenza di quel che era iniziato alla fine dell’estate:
sermoni su sermoni d’un crescente numero di imam contro il ministro della
Giustizia, Zahid Hamid, accusato di blasfemia. La sua colpa è aver introdotto
un protocollo ‘laicizzato’ per i ministri del governo che, quando giurano
fedeltà, non devono far più riferimento al profeta Maometto. La modifica viene
considerata un atto gravissimo, al quale il ministro ha cercato di rimediare
scusandosi. Ma il giovanissimo partito dei Tehreek
non ha voluto sentir ragioni e chiede le dimissioni del politico. Nel contempo
la campagna dei predicatori contro ciò che viene definito un degrado di costumi
delle Istituzioni politiche ha fatto decine di migliaia di proseliti e i sit-in
pacifici di inizio novembre son finiti sulle barricate. Lo stesso gruppo
islamista sta riscontrando un formidabile consenso, sorto da un paio d’anni il
movimento Tehreek ha nelle recente elezioni fatto segnare il 7% di consensi
elettorali, un vero boom per una formazione esordiente. A dimostrazione di come
il substrato pakistano sia apertissimo ai richiami d’un confessionalismo politico
che assume connotati cangianti.
I gruppi armati di Taliban
ortodossi sono da tempo presenti, e quelli dissidenti hanno da tre anni
introdotto uno scontro ideologico su basi etniche in aree circoscritte
(Waziristan), più terrore diffuso con stragi e attentati sui civili (la scuola
di Peshawar, il parco-giochi di Lahore, la stessa Islamabad città delle
Istituzioni). Ora si prospetta un ulteriore scenario: la protesta fondamentalista
può diventare jihadismo di massa. Anni addietro qualche caso si verificò in
circostanze specifiche riguardanti prevalentemente simboli, come l’ambasciata
statunitense assaltata da studenti islamisti in occasione delle vignette contro
Maometto, ma al di là della reciprocamente ambigua alleanza fra Washington e
Islamabad, è la politica nazionale a star stretta a un numero crescente di
popolazione che riprende a guardare verso l’Islam politico, in una versione
estrema rivolta alle masse. Proprio questa è la posizione espressa dai Tehereek-i-Labaik Ya Rasool che si
misurano sul terreno elettorale e, tramite il retroterra delle moschee, nelle
piazze e nel braccio di ferro che può scaturire dal muro contro muro con
l’establishment istituzionale. Occorre osservare cosa farà il Daesh, già
apparso nella regione da oltre un anno per tessere rapporti coi talebani dissidenti,
per un impegno, comunque, esclusivamente armato. Attualmente per l’Isis,
sconfitto e allontanato dalla Siria, riparare su terreni di scontro del Medio
Oriente vicino (Sinai) e lontano (Afghanistan e Pakistan) l’inserimento, con
propri predicatori, fra le masse in subbuglio può rappresentare una ghiotta
occasione.
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