Non hanno avuto molto
tempo per dormire i ciclisti della squadra Israel
Cycling Academy, già in allenamento per la Centunesima edizione del Giro
d’Italia che partirà - incredibile ma vero - da Gerusalemme. La scorsa
settimana un gruppetto di atleti era giunto in Israele per un adattamento nei
luoghi dove sono previste le prime due tappe. I corridori, un po’ storditi dal
jet-leg, stavano riposando per la pedalata del giorno seguente, quando verso
mezzanotte sono stati svegliati da un reparto dell’Israeli Defence Forces che gli ha propinato un addestramento
particolare: krav maga, il sistema criminale d’offesa spacciato come ‘arte
marziale difensiva’ e utilizzato dai reparti speciali dell’Idf. Lo riferisce un
articolo pubblicato sul sito web di Cyclingnews,
rivista australiana di settore (http://www.cyclingnews.com/news/israel-cycling-academy-hike-to-jerusalem-gallery/). Del gruppo facevano
parte gli ultimi acquisti del neoformato team: il belga Ben Hermans, lo
spagnolo Ruben Plaza, i norvegesi Holst Enger e August Jensen, l’italiano
Sbaragli, il turco Örken. Al di là della militarizzazione degli allenamenti dei
pedalatori, non sappiamo se giustificato da questioni di sicurezza personale,
che manifesterebbero un’impossibilità di Israele di garantire l’incolumità assoluta
di atleti e staff oppure da un eccesso di zelo o ancora dall’uso di ogni circostanza
per divulgare la pseudo arte marziale tanto cara a Tsahal, facciamo alcune considerazioni
sull’appuntamento.
Perché la nazione
israeliana lancia quest’iniziativa? Crediamo per utilizzare quel terreno
neutrale e attrattivo rappresentato dallo sport per uscire dall’isolamento in
cui la reiterata linea aggressiva del proprio establishment politico l’ha
sospinta da tempo. Israele è presente nel mondo sportivo e si è costruito un
palmarés in alcuni discipline di squadra (calcio, basket) e individuali (judo,
ginnastica, nuoto, tennis) dove ottiene anche successi e piazzamenti olimpici.
Del ciclismo, francamente, non c’è traccia, come non c’è in buona parte di quel
Medio Oriente, inadatto a tali competizioni un po’ per conformazione
morfologica e principalmente per questioni geopolitiche. Organizzare una corsa,
in linea o a tappe, non è come realizzare una gara al chiuso di uno stadio o un
palasport. La sicurezza è messa in crisi dall’instabilità, soprattutto se si
devono percorrere migliaia di chilometri. Ciò non toglie che anche in quei
luoghi l’amore per le due ruote possa trovare seguaci. Alcuni corridori del
team ICA (Goldstein, Niv, Sagiv) sono
israeliani, ma la squadra citata dall’articolo di Cyclingnews, nasce due anni or sono, probabilmente con l’intento
che abbiamo ipotizzato poc’anzi: utilizzare ogni opportunità per dare un’immagine
rassicurante di Israele. Caratteristica resa dubbiosa da ogni notizia di
cronaca, interna e internazionale. Uno dei finanziatori di Israel Cycling Academy, Ronald Baron, e il direttore sportivo ed ex
ciclista, Ran Margaliot, narrano la storia del loro incontro avvenuto, tre anni
fa, sotto la collina di Nes Harim, 700 metri di altezza, diventata nel 1950 un moshav,
comunità agricola degli ebrei Mizrahi.
I due, per pura passione,
avrebbero deciso di fondare il citato club del pedale che, secondo un recente
articolo del Corriere della Sera (http://www.corriere.it/sport/17_settembre_18/israel-cycling-academy-l-unico-team-pro-che-corre-grazie-donazioni-48ecd510-9c4b-11e7-9e5e-7cf41a352984.shtml) si regge sulle
donazioni. Se queste ci sono potranno esser rese pubbliche, ma letta la
biografia di mister Baron pensiamo che alla passione abbia unito anche i suoi
non pochi denari. Newyorkese, negli anni Settanta Baron lavorava per una
società di brokeraggio; nel 1982 ha fondato la Baron Capital Management, una
società che si occupa di investimenti. La rivista Forbes gli attribuisce attualmente una gestione di 26 miliardi di
dollari. Il secondo socio del club ciclistico israeliano è un altro capitalista
non da poco: Sylvan Adams, figlio di Marcel, ebreo rumeno sopravvissuto
all’Olocausto, fuggito prima in Turchia e riparato nel nascente Stato di
Israele per il quale combatté nel 1948. Subito dopo papà Adams si stabilì in
Canada in qualità di affarista, prima nella concia del pellame quindi come
immobiliarista. Il figlio Sylvan ne ha ereditato le attività. Certo lo sport ha
bisogno di finanziamenti ed evidentemente per gli israeliani affezionati alla
causa del proprio Stato investire sul mito del pedale offre a Israele un
ritorno d’immagine non da poco. La bella favola ha trovato sponda nella Corsa
Rosa, non solo con la legittima iscrizione della squadra di Tel Aviv
nell’edizione del Giro che gira pagina dopo i suoi cent’anni di gara, ma con la
scelta degli organizzatori di portare la corsa fuori dal continente. Finora le
discusse e discutibili sortite estere, iniziate nel 1965 con una tappa a San
Marino, avevano avuto una dozzina di precedenti, rilanciati periodicamente
dalla metà degli anni Novanta.
Gli sponsor pagano bene
e il circo del pedale segue quel richiamo. Apprendiamo dal gruppo Boycott, Divestment, Sanctions che La Gazzetta dello sport riceverà oltre
quattro milioni di euro per le due tappe estere. Non ci meravigliamo, né
scandalizziamo. Lo sport agonistico è da troppo tempo diventato una costosa macchina
affaristica. Pesano molto di più sul morale di chi crede nel suo ruolo nella
società moderna le truffe e la piaga del doping, che com’è accaduto, incide
pesantemente sulla salute degli atleti. Scandalizza, invece, che il volto buono
che Israele vuole offrire di sé non riceva la critica per i soprusi, le
ingiustizie, le violenze che quel Paese profonde. Sicuramente non saranno gli
sportivi e i dirigenti di Israel Cycling
Academy a macchiarsi dei crimini sui palestinesi. Ma quest’ultimi se mai
riuscissero a veder passare (e non ci riusciranno, non solo a causa del Muro)
la carovana del Giro, ad ascoltare l’armonioso frusciare di cambio e catene, a
intercettare la fatica e la gioia di chi pedala, si sentirebbero meno oppressi?
Chi si batte contro l’ingiustizia fatta politica può accettare che i corridori
israeliani partecipino alla festa della competizione. Considera, invece, un
insulto far transitare la corsa per Gerusalemme e lì sostare, chiudendo gli occhi
davanti allo sfregio di cinquant’anni di occupazione di quei luoghi santi.
Degli ebrei, ma anche dei cristiani e dei musulmani che lì abitano e ne vengono
sfrattati. Il Ginettaccio, nell’occasione ricordato per il sacrosanto aiuto
offerto agli ebrei italiani perseguitati dal nazifascismo, proprio per quel
senso di giustizia che ne ha caratterizzato la vita a queste tappe portate su una terra insanguinata direbbe:
“L’è tutto da rifare”.
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