Alleato sì, ma sempre
secondo propri interessi e dettami, perciò Washington in queste ore sta
spingendo affinché Massoud Barzani e il suo partito (Pdk) mettano da parte la
scadenza del referendum d’indipendenza del Kurdistan fissato per il 25
settembre. ‘Non è tempo di voto’ sostengono
alla Casa Bianca e qui la frattura diventa netta, perché nel territorio fremono
i preparativi con tanto di striscioni e cartelli elettorali. La posizione
statunitense non è un diniego, si vuole posticipare la consultazione in una
fase meno turbolenta. Però l’affermazione diventa sibillina, visto il crescendo
bellico registrato in questi anni nella regione, dove i peshmerga kurdi hanno
giocato un ruolo di primo piano nella difesa dei propri territori e
nell’offensiva per la riconquista delle aree occupate quattro anni addietro dai
miliziani del Daesh. Tutto ciò è stato reso possibile anche grazie agli
armamenti ricevuti dal Pentagono, ma la leadership di Erbil si sente in credito
coi politici d’Oltreoceano, obamiani o trumpiani che siano. Col referendum, pur
limitato ai territori del Kurdistan iracheno, entra in ballo il fattore per un
secolo evitato dalla politica coloniale mondiale: la creazione di una nazione
kurda. O perlomeno di un suo embrione.
La frammentazione della
cospicua comunità in quattro Paesi, le divisioni interne fra i vari ceppi
etnici, le ulteriori divisioni politiche fra i kurdi anche dentro la stessa
comunità, come accade nella regione irachena, non cancellano il fantasma con
cui la geopolitica mondiale non vuole misurarsi. Le nazioni forti del
Medioriente infiammato, Turchia e Iran, coinvolte direttamente e per interposte
fazioni nella crisi e guerra siriana, sono entrambe contrarie a concedere autonomie
locali sia entro i propri confini sia fra i vicini. Egualmente le potenze
mondiali americana e russa, attente agli sviluppi del possibile ridisegno mediorientale
non gradiscono la frantumazione di due Paesi alleati e protetti: Iraq e Siria.
E’ una contraddizione perché di fatto queste nazioni si ritrovano disgregate da terribili guerre, anche
fratricide. Il quadro è in divenire, partite e obiettivi differenti
s’incrociano su uno scacchiere quanto mai complesso. Washington lavora per conservare
il consunto status quo con cui Baghdad riconosce da tempo l’autonomia del
territorio del nord, definito Kurdistan. I kurdi, però, accanto al marchio
d’indipendenza, vogliono inserire nella regione la provincia di Kirkuk, coi
tanti pozzi petroliferi che costituiscono una delle perle del governo centrale
iracheno (e delle compagnìe estrattive mondiali che li sfruttano).
Contro quest’ipotesi si
schierano anche le minoranze arabe e turkmene presenti in quella fetta di
territorio che continua a essere disputato non solo per fini economici e
politici, ma di appartenenza etnica. Nei decenni si sono ripetuti contrasti fra
clan e comunità con faide e spostamenti di gruppi, occupazioni e demolizioni di
case, razzie e vendette. Attualmente il governo di Baghdad non ha l’autorità e
la forza militare né del trascorso regime baathista, né della prima fase di
transizione. Ma se opponesse un’azione di forza sul tema referendario, magari
con l’avallo statunitense, la contrapposizione fra gruppi etnici rilancerebbe
un caos violento poco controllabile. E’ l’opzione che teoricamente tutti
scongiurano, sebbene in contemporanea ciascuna parte alza la voce senza optare
per il dialogo. In più la recente uscita di Trump sulla vicenda: “La questione del referendum kurdo distoglie
l’attenzione dall’impegno primario: la lotta all’Isis” anziché compattare
le parti, ha gettato benzina sul fuoco visto che mette in discussione un tema
caro ai peshmerga, i combattenti sul campo dei miliziani neri. Costoro, dopo
gli encomi, cercano l’incasso politico e mercantile.
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