Sogno gioioso - Fra chi festeggia (i kurdi iracheni) e chi
minaccia (Turchia, Iran e ovviamente il governo di Baghdad) si muovono i dati
ufficiosi del referendum sull’agognata indipendenza in Kurdistan, compresi i seggi
collocati nella preziosa area di Kirkuk. Ha votato il 78% degli aventi diritto
e il sì supera il 93%. I dati ufficiali saranno noti entro giovedì. Le
telecamere di numerose emittenti accorse a Erbil mostrano gente gioiosa che
celebra un giorno considerato storico, seppure potrebbe risultare l’anticamera
d’una deriva anche pericolosa. Basata su nuovi conflitti in casa, ora che lo
scontro con lo Stato Islamico pare, se non concluso definitivamente, di certo
attenuato. Nel giorno della festa la voce più dura la fa il solito Erdoğan, che
pensa sicuramente ai suoi kurdi, tre volte più numerosi, sparsi in più punti
dell’Anatolia, seppure il sud-est sia la loro patria mai designata. E
minacciosi dopo la ripresa delle ostilità col Pkk, più i dissidenti (Falconi
della libertà) quest’ultimi sì usi al terrorismo diffuso. Per animare la
divisione fra i molteplici ceppi dell’etnìa kurda - separata, dopo il ‘tradimento’
del trattato di Losanna, nelle quattro nazioni confinanti (Turchia, Siria,
Iraq, Iran) - l’attuale presidente turco aveva da tempo stabilito un rapporto
cordiale col più malleabile e filoccidentale dei leader della regione autonoma
del Kurdistan: quel Masoud Barzani, nipote e figlio di chi nel nome dei kurdi
cercava di ottenere terra e potere.
Barzani nella storia - Questo Kurdistan, solo di recente
riconosciuto come regione autonoma, anche in funzione del barcollante assetto
di un Iraq lacerato dai conflitti interni dopo la caduta di Saddam Hussein, riceve
le sue risorse dalla ricchezza del sottosuolo, principalmente nella provincia
contesa di Kirkuk. Terra abitata dall’etnìa, che subì verso la fine degli anni
Ottanta una delle operazioni politiche del dittatore iracheno. Alla pulizia
etnica praticata coi gas, s’aggiunse quella della colonizzazione dei luoghi, e nella città del petrolio giunsero frotte di
arabi pagati da Baghdad. Le estrazioni dai pozzi di Kirkuk trovano nei Paesi
confinanti, specie la Turchia, un canale di distribuzione e commercio, di cui
Ankara ora minaccia di chiudere i rubinetti. Questa, al di là del potere delle
armi, è la mannaia che può pendere sulla testa della comunità festante, finora
garantita rispetto ai fratelli collocati oltre confine. Un vantaggio
finanziario non di poco conto, con una ricaduta distributiva delle ricchezze
magari limitata dai capi clan, ma comunque presente. Ecco l’azzardo che
l’accelerazione di Masoud Barzani sul tema dell’indipendenza sta introducendo.
Però l’ormai settantunenne leader difficilmente farà marcia indietro, spera di
poter far scrivere sui libri di storia il conseguimento d’un obiettivo più
concreto di quelli raggiunti dal nonno e dal padre. Una questione privata o di
famiglia, dunque? Non del tutto. Chiaramente, nelle mosse dell’attuale statista
senza Stato, c’è la volontà di dare un senso ad antiche battaglie.
Confederazione - Specie in una fase in cui i colossi mondiali si
pongono il problema su cosa fare di una nazione nata, come altre contigue, da
accordi coloniali che sembrano aver esaurito il loro percorso temporale. In più
con la guerra al Daesh il combattentismo dei kurdi iracheni ha acquisito punti.
Cinquemila peshmerga hanno riversato sangue sui propri scarponi messi sul
terreno a Mosul, cosa che nessun generale Nato e d’altra coalizione ha ordinato
ai militari anti-Isis. La via intrapresa da Barzani tiene in considerazione
tali logiche, sebbene non è detto che possa passare all’incasso geopolitico.
Consapevole del valore simbolico del referendum appena concluso e vinto senza
stralciare i voti contrari, che s’attestano attorno al 7%, conscio dell’alto
peso politico che esso può avere, la tappa futura di Barzani potrebbe
rivolgersi al governo di Baghdad, pur col supporto della Comunità
internazionale, parlando di confederazione kurda in luogo di regione autonoma.
Non è lo spettro dell’indipendenza che sveglia fantasmi di secessione,
aggiungendo un tassello ulteriore all’autogestione, specie se coinvolgerà la
zona di Kirkuk, dove i capi kurdi si guardano bene dall’escludere arabi e
turcomanni lì presenti, facendo convivere anche fedi islamica e caldea. I dubbi
su un tale percorso risiedono prevalentemente oltre confine. Ancoràti al
pericolo dell’effetto domino fra milioni di altri kurdi, divisi geograficamente
e politicamente, ma ben vivi in altri sogni. Quelli dei leader delle potenze
regionali che non vogliono trasformarli in incubo.
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