sabato 4 ottobre 2025

Meglio idealisti che servi dei sionisti

 


Il poker dei complici di genocidio è lì sui cartelli, inchiodato dalla propria protervia, in perfetta formazione governativa: Meloni la premier, Tajani ministro degli Esteri, Crosetto ministro d’una Difesa già convertita in Guerra, Salvini ministro jolly, che dalle Infrastrutture parla d’ogni cosa tranne che pensare a quelle. Il milione della piazza romana li condanna per complicità coi crimini di Netanyahu, per sudditanza a Trump e ai voleri della Casa Bianca con inchini addirittura più servili dei trent’anni ininterrotti del potere Democristiano nel secondo Dopoguerra. Dopo giorni di montante mobilitazione le piazze italiane continuano a tener botta, a rilanciare, a ritrovarsi ancor più numerose, e rumorose, e ritmanti negli slogan come all’epoca di antiche militanze, ma pure danzanti, gioiose, coraggiose se serve battersi contro gli uomini in plexigrass quando menano. Una piazza rafforzata attraverso tre generazioni. Anno 2025  l’opposizione solidale ritrova una forza dirompente; quella sociale, ieri presente nei richiami dai megafoni potrà compattare sé stessa come ha fatto durante lo sciopero del giorno precedente. Uno sciopero vero, nazionale e internazionalista, uno sciopero del cuore e del sentimento, rosso come il sangue dei martiri di Gaza. Uno sciopero politico – era ora – senza il sindacalismo filogovernativo al seguito che per troppi anni ha svilito la Cgil. Cobas, Usb, altre sigle delle rivendicazioni di classe hanno direzionato quella protesta, che trova quell’eco geopolitico che i partiti dell’opposizione non sanno offrire o prestano a singhiozzo. E soprattutto con un’ambiguità autoreferenziale come hanno mostrato negli ultimi anni rispetto a un’Unione Europea guerrafondaia e filo americana. 

 

A Porta San Paolo, dove ogni 25 aprile si riunisce la Roma antifascista, la cittadinanza d’opposizione s’è abbracciata con speranza e indignazione. La speranza di non essere ancora sotterrata dalla partitocrazia d’ogni colore che decide sulle proprie teste. L’indignazione di chi dopo una vita di lotte si ritrova governato da neo fascisti, per l’assenza di progettualità da parte di chi sostiene d’essere un’alternativa, senza ammettere decenni di fallimenti. E’ la gente che non vota più, se non il 50% almeno quel 30% che potrebbe costituire il primo partito d’Italia, più del mix di neofascisti e maggioranza silenziosa che elegge Meloni per ricevere i “buoni” di ritorno di quel clientelismo che l’attuale premier ha ereditato da Berlusconi. La massa di strada, i volti colorati e pure quelli attempati e canuti, sono pieni di vitalità e non vogliono posizionarla negli armadi della memoria. Hanno sventolato le proprie bandiere, rosse assieme a quelle a più colori della Palestina, ricordando che quello Stato mai nato, quella terra occupata da Israele, quel popolo orgoglioso non può essere affamato e trucidato. Non può essere ridotto a merce di scambio dai capitalisti arabi collaborazionisti d’un rilanciato imperialismo. I palestinesi non possono finire profughi in miserabili campi com’è accaduto dal 1948. Altro che 7 ottobre, la tragedia data 14 maggio, settantasette anni addietro. Sull’onda d’un riscatto solidale verso i fratelli palestinesi, l’Italia dell’opposizione, quella reale e non parolaia, cerca una sua dimensione. Si può rifiorire in mezzo al Mediterraneo, si possono spiegare bandiere sociali al vento come le vele della Sumud Flotilla. “Meglio idealisti che servi dei sionisti” recitava un cartello. Quest’Italia degli ideali può dare l’assalto al Paese del potere, dei palazzi, delle camarille, delle istituzioni asservite. “Vaffanculo governo Meloni” gridavano ragazzi con la luce negli occhi. E’ nelle strade che questo popolo può ritrovare l’onorabilità che Palazzo Chigi ha svenduto, solo con la lotta ritrova decoro e dignità. 

 


 

venerdì 3 ottobre 2025

Sciopero e scioperati

 


Sentenzia, dall’alto della carica acquisita a suon di consensi nell’urna, la premier Meloni: “Mi sarei aspettata che i sindacati almeno su una questione che reputavano così importante non avessero indetto uno sciopero di venerdì, il week end lungo e la rivoluzione non stanno insieme”. Ce l’ha con gli odierni scioperanti, quelli che s’alzano all’alba o in piena notte, aspettano bus sempre in ritardo, coi conducenti che ascoltano lamentele d’altri pendolari del lavoro. Ce l’ha con netturbini e vigili del fuoco, infermieri e carpentieri, addetti alle pulizie e bidelli, impiegati e dottoresse, i pochi operai rimasti e pure le tante partite Iva che però risultano dipendenti anche loro di aziende che li fanno soci o consulenti comunque non protetti. Ce l’ha con l’Italia che lavora l'underdog coi nonni attrice e regista, la sorella d’Italia che fingendo si dipinge borgatara, in realtà solo sorella d’Arianna, colei che tesse il filo al primo partito di governo e al proprio amichettismo familiare. Ce l’ha con insegnanti e studenti, dimenticando quand’era, dicono, studentessa di buon profitto e altrettanto lodevole pagella. Ma fra l’Istituto Vespucci e l’attuale rendita di posizione c’è solo l’appartenenza politica, lunga, molteplice nelle sigle, tutte nell’ultradestra, tutte fiammeggianti (Fronte della Gioventù, Azione Studentesca, Azione Giovani, Alleanza Nazionale) fino al bacio in fronte donatogli dal padre putativo che l’ha elevata alla politica di potere, facendola ministro della Gioventù: Silvio Berlusconi. La più giovane ministra, trentuno primavere. Fra quel 2008 e i precedenti dodici anni, il suo tempo Giorgia Meloni, l’ha trascorso nelle sedi delle citate organizzazioni, più qualche incarico politico fra consigli circoscrizionali e provinciali. Quindi Dirigenze, Presidenze, ovviamente di partito, mai chessò un ufficietto, una scuola per una supplenza, un tour operator dove sfoggiare il patrimonio linguistico. Nulla. In realtà un posto di lavoro Giorgia, l’ha conosciuto fra il 2004 e il 2006, fra due rioni storici romani di Sant’Eustachio e Campo Marzio, presso la redazione de Il Secolo d’Italia, organo del Movimento Sociale Italiano, giornale di partito passato attraverso tutte le campagne d’odio, le stragi del neofascismo, il doppiopettismo almirantiano e poi finiano, fino a conservarsi testata di Allenza Nazionale e ora di Fratelli d’Italia. Lì la militante ormai ventisettenne fece due anni di praticantato per diventare, Ops!, giornalista professionista. L’avevano già fatto i camerati Gasparri e Storace. E prima di loro altri nostalgici piazzati nel carrozzone Rai, quando la Destra italiana si riteneva ostracizzata dal Pentapartito della Prima Repubblica e dalle successive gestioni lottizzatorie delle sinistre di governo. Sta di fatto che, come chi l’ha preceduta in talune magìe della partitocrazia e chi a lei attualmente s’accompagna, la o il, come meglio gradisce, Primo Ministro della Repubblica, mai ha sudato neppure una camicetta di seta, figurarsi una tuta da lavoro salariato. Sarà per questo che come usa nel Belpaese, straparla e giudica sull’altrui occupazione, sul diritto di scioperare, sulle presunte furbizie di chi s’assenta dal servizio per fare il vacanziere. Tutto spesato dal datore di lavoro, senza coscienza, senza morale, senza senso di collettività, senza vergogna. Così dagli scioperanti agli scioperati il passo diventa breve, e nella sua logica Meloni dovrebbe trovarsi in prima fila a manifestare con un vessillo in mano. Se non quello palestinese, il tricolore che dice d’amare e servire con patriottico livore.  


 

giovedì 2 ottobre 2025

Vento di risveglio

 


Braccia sollevate all’arrembaggio per un pezzo della Sumud Flotilla per non finire ammazzati come Cengiz Alquyz, Ibrahim Bilgen, Ali Haydar Bengie, Cegdet Kiliclar, Cengiz Songur, Çetin Topçuoglu, Sahri Yaldiz, Necdet Yildirim, tutti cittadini turchi, e Furkan Dogan, turco-statunitense. Tutti attivisti imbarcati sulla Mavi Marmara appartenente alla Freedom Flotilla, che nella notte del 31 maggio 2010, vennero intercettati e assaltati dalle forze speciali della marina d’Israele. Finirono i loro giorni sotto i colpi d’arma da fuoco del commando israeliano per aver cercato con mani, bastoni e spranghe di respingere quell’attacco che impediva il trasporto di viveri e aiuti umanitari alla popolazione di Gaza assediata. Nei mesi precedenti Israeli Defence Forces aveva lanciato l’attacco denominato Piombo fuso, sedicente operazione difensiva che aveva assassinato 1.300 gazawi, anche in quel caso soprattutto civili e bambini. La comunità internazionale era stata prevalentemente inerte. Gli Stati Uniti erano guidati dal “progressista” Obama, la Lega Araba sollevò le solite proteste di facciata, più dura fu la Turchia di Erdoğan che interruppe per un periodo i rapporti con Israele, soprattutto a seguito dell’uccisione dei suoi concittadini, ma il tempo stemperò gli attriti. A Tel Aviv regnava anche allora Bibi Netanyahu, al suo secondo esecutivo in carica dal marzo 2009 al marzo 2013. In quindici anni la disgregazione mediorientale, nonostante le speranze antiautoritarie delle “Primavere arabe”, è tuttora in corso, e accanto alla soppressione di libertà e autodeterminazione di diversi popoli, l’etnìa palestinese è a rischio estinzione, come e peggio di quanto accadde all’epoca della ‘Nakba’ quando Israele nasceva e, in faccia al presunto progressismo delle comuni dei kibbutzim,  imponeva la logica coloniale del sionismo, peggiorato e regredito nei successivi decenni con punte di ebraismo ortodosso feroce, oltranzista, razzista. Genocida. 

 


In quasi due anni Tsahal ha eliminato 66.200 abitanti della Striscia, ne ha feriti e menomati 169.000, ne ha messi in fuga 400.000, creando da mesi un caotico e defatigante via vai per i 42 chilometri lungo quella costa su cui speravano di approdare i soccorritori pacifisti dell’ultima flottiglia, anch’essa internazionale come nel 2010. Il premier che incentiva la morte e il suo amico presidente, che parlando di pace lo protegge e sostiene, osservano i disperati traslochi degli assediati impossibilitati a scegliere dove riparare. I due si godono lo scempio creato, le morti per fame e sete di corpicini scheletrici, il crollo di neppure sessantenni dalle sembianze centenarie così ridotti dagli stenti sedimentati nel tempo, perché gli stop a forniture, alimenti, medicine sono esistiti anche negli anni passati. Servivano e servono a fiaccare, a scavare corpi, a martoriarli nell’essenza della vita, prim’ancora che nella devastazione della mente. Dall’8 ottobre 2023 il disfacimento del territorio, di strade e palazzi, finanche di tendopoli successive alle demolizioni urbane da terra e dal cielo, fa di quest’umanità dolente un ostaggio ben più grande dei prigionieri catturati da Hamas il 7 ottobre. E’ un impari prova di forza che punta a un futuro di sterminio definitivo forse anche di donne e uomini, certamente della testimonianza d’un popolo. Poiché al di là di sedicente Stato palestinese, gli agglomerati della Striscia e della Cisgiordania, non hanno mai avuto dignità di nazione. Risultano luoghi di prigionìa, più o meno mascherati e perpetuati nel tempo da una politica internazionale che associa anche cosiddetti amici, arabi e islamici, e leadership interne piegate al volere di Israele libero di praticare occupazione e umiliazione. Questo il tema che l’ultima Flotilla ha lanciato via mare, come il classico messaggio nella bottiglia che l’impotenza del naufrago o dell’isolato lancia affinché qualcuno lo raccolga. Nelle ultime settimane ciò che le Nazioni Unite e i potenti del mondo, governi e partiti vigliacchi e ambigui non vogliono trattare, viene afferrato da parecchie piazze del mondo. C’è da sperare che questo vento continui a soffiare. Per mare e per terra.

mercoledì 1 ottobre 2025

Buio a San Siro


Ascoltate Paolo Scaroni, attuale presidente dell’Associazione calcistica Milan, una delle società blasonate della serie A d’Italia (19 scudetti, 7 Champions League e un’altra quarantina di coppe nazionali e intercontinentali) e capirete perché lo sport più seguito e amato del mondo è ostaggio di quelli come lui. Il suo pedigree ne dipinge le doti manageriali all’italiana. Strettamente legato alla politica, e veleggiando lui per gli ottanta si tratta di politica della “Prima Repubblica”, vanta parentele d’area craxiana con Maggie Boniver; amicizie a tre punte: a destra il consigliere economico di An Massimo Pini, al centro il faccendiere andreottiano Luigi Bisignani, a sinistra (si fa per dire) l’ex ministro Gianni De Michelis, legami solidi, solidissimi grazie ai quali passa dai Master alla Columbia University che l’accreditano quale manager all’americana, alla salsa dirigenziale italiana condita in Enel e poi in Eni. Incarichi che nel tempo gli procurano un po’ di grattacapi con inchieste internazionali (Eni/Saipem-Algeria, Eni/Shell-Nigeria) tutte scavalcate con un’assoluzione fra Appello e Cassazione. L’unica macchia è di vecchia data, ancora “Prima Repubblica” e concerne, guarda un po’, le indagini della ciclopica “Mani Pulite” del pool milanese (Borrelli, Di Pietro, Colombo, D’Ambrosio, Davigo, Greco, Boccassini, Spataro che è come dire: Cudicini, Anquilletti, Schnellinger, Malatrasi, Rosato, Trapattoni, Rivera, Prati… Olè). Con quei campioni, di magistratura, Scaroni incappò in potenziali condanne per tangenti offerte al Partito Socialista, che lui dribblava con un patteggiamento. Trent’anni dopo confesserà che sì, aveva ‘donato’ denaro ai politici. Questo il passato prossimo e remoto. Nel presente il supermanager prestato al calcio milanese, in maniera apparentemente più disinteressata di quel che fecero Berlusconi e Galliani, risponde così nell’odierna intervista de La Repubblica, a corredo della decisione presa a nottefonda dalla Giunta comunale, di cedere la ‘Scala del calcio’ ai club cittadini di Inter e Milan che demoliranno quel monumento per costruire un nuovo stadio. “San Siro è vecchio, ma ha una caratteristica fondamentale, si gusta benissimo il calcio. Nel nuovo stadio gli spettatori saranno più vicini al campo e lo sviluppo ancora più verticale”. Più verticale significa più alto? Azzarda l’intervistatore e poi Chissà chi abita lì… “Gli abitanti possono stare tranquilli perché lo stadio partirà da sotto e pur sviluppandosi in altezza sarà meno impattante”. Due assoluti nonsense, diciamo noi. Se si sta alti si sta più lontani dal campo, e se le altezze strutturali cresceranno il paesaggio urbano ne risentirà. A meno che la febbre del grattacielo diffuso debba diventare il pensiero-unico per un gran pezzo di Milano, nonostante le proteste dei comitati cittadini verso tale scempio definito speculazione. Peraltro una delle tante della Giunta Sala. Rincara Repubblica: A chi parla di speculazione edilizia cosa risponde? “Che da parte di Inter e Milan non ci sarà alcuno spazio per la speculazione. Faremo: un albergo, la sede nostra e dell’Inter, un museo delle squadre e di San Siro (prima abbattuto quindi santificato, ndr) un piccolo centro commerciale di 15 mila metri quadrati, ristoranti e bar. Il tutto immerso nel verde perché deve diventare un luogo da visitare sempre”. Uno stadio un posto da visitare sempre? Mah, basterebbe far svolgere le partite in un clima normale, estirpando la teppa malavitosa che stabilisce controlli su parcheggi, posti in tribuna e curva, con ricatti e minacce alle società medesime, che come quasi tutti i club nazionali, la Lega Calcio e la Federcalcio accettano passivamente. I malviventi  proseguiranno a infestare quel luogo? Repubblica non l’ha chiesto, forse sarebbe stato politicamente pruriginoso. Si parla,  invece, di proprietà e di RedBird, la creatura di Gerry Cardinale, l’imprenditore di Filadelfia, nipote di immigrati, che ha fatto fortuna lavorando per Goldman Sachts. Lui investe e gioca con vari sport nel mondo. Nel calcio possiede Liverpool e Tolosa, spaziando fra Inghilterra e Francia. Negli States i Boston Red del baseball e i Pittsburgh Peanguins dell’hockey ghiaccio. A Milano fa lo stadio e poi vende? chiede Repubblica. “Non c’è nessuna ipotesi di cessione da parte di Cardinale, almeno nel medio termine – tranquillizza, ma mica tanto, Scaroni – lo stadio ci consentirà maggiori entrate, modernità e innovazione. Milano è la città del fare”. Secondo i cittadini dei comitati contrari a quest’ennesimo mattone della speculazione edilizia lanciata dieci anni fa con l’Expò, il fare è in totale assonanza con l’affare del colonialismo dei fondi finanziari. Son loro gli assalti alla vita urbana ed extra, l’occupazione di suolo oltre ogni ragionevole necessità, lo scippo di abitazioni alla popolazione locale a favore d’investimenti asfissianti e turismo lussuoso. Il vecchio calcio ormai sfigurato, serve soprattutto a questo. 

 


   

 

martedì 30 settembre 2025

I miracoli di New Gaza

 


Nel Risiko della pace, che tanto l’affascina poiché vuol iscrivere il suo nome nella lista dei Nobel per tale traguardo, Donald Trump lancia venti comandamenti per la Nuova Gaza. Netanyahu li accetta, Hamas sta valutando, avrà ancora a disposizione quarantotto ore, visto che un giorno è già trascorso. Nella lista dei precetti spicca la premessa: Gaza libera dal terrorismo (inteso come rinuncia a qualsiasi difesa da parte palestinese), quindi riqualificazione a beneficio della popolazione di Gaza, che ha sofferto più che abbastanza (sic). E’ servito sotterrare e ferire definitivamente duecentomila cittadini di quei luoghi e sgombrarne quattrocentomila per enunciare questo principio.  Però, ad accettazione di entrambe le parti, tutti gli ostaggi, vivi e deceduti, saranno restituiti. Israele rilascerà anche 250 prigionieri condannati all’ergastolo più 1.700 abitanti di Gaza detenuti dopo il 7 ottobre, comprese tutte le donne e i bambini imprigionati in quel contesto. I membri di Hamas che si dovessero impegnare a una convivenza pacifica, smantellando l’organizzazione politica e militare, guadagnerebbe l’amnistia. Chi fra loro vorrà lasciare la Striscia riceverà un biglietto sicuro di sola andata. Accettato quest’accordo gli aiuti avranno quel via libera che finora Israele ha vietato, fatto marcire, centellinato col contagocce tramite l’erogazione gestita dalla Gaza Humanitarian Foundation (organismo statunitense creato ad hoc) che ha mitragliato e assassinato gazawi affamati, mentre presiedeva le scarse distribuzioni di alimenti. Ora la ripartizione tornerebbe alle agenzie Onu e alla Mezzaluna Rossa, chissà perché tutto ciò finora veniva vietato. La Striscia verrebbe governata da un fantomatico Comitato palestinese tecnocratico e apolitico supervisionato da un sedicente Ufficio della Pace (sic) che avrebbe fra i suoi esponenti di spicco l’ex premier britannico Tony Blair, che un decennio addietro un rapporto (Chilcot l’estensore) di due milioni e mezzo di parole mostrava quale mentitore per i presunti dossier sulle armi di ‘distruzione di massa’ in possesso di Saddam Hussein. 

 

In base a quelle falsità il suo governo appoggiò l’invasione statunitense dell’Iraq e il conseguente sterminio di 150.000  civili. Nel “comitato” potrebbero entrare funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese al momento della realizzazione d’un programma di non meglio definite riforme. Nella Striscia verrebbe istituita una “zona economica speciale con tariffe e tassi d’accesso preferenziali da negoziare con i Paesi partecipanti. Quindi, non solo si riproporrebbe una totale assenza d’uno sviluppo economico autonomo e autoctono, ma nazioni e società esterne trarrebbero vantaggi da quegli investimenti protetti. Chi vorrà potrà lasciare Gaza, ma a dimostrazione delle buone intenzioni dell’Ufficio della Pace, chi volesse rientrare potrà farlo. Tutte le infrastrutture militari in loco verranno distrutte, recita il precetto numero tredici, come se finora le macerie non avessero compreso anche alcune caserma o tunnel di Hamas. In realtà l’80% degli edifici d’ogni genere, compresi ospedali e scuole, sono stati rasi al suolo o irreparabilmente danneggiati. Secondo la versione di Tsahal perché erano rifugi dei miliziani islamici. Accanto all’Idf  (Israeli Defence Forces) comparirà l’Isf (International Stabilization Forces) formata da alleati degli Stati Uniti in Medioriente e nel mondo, che offrirà supporto a una “polizia palestinese” intenta a collaborare con Israele ed Egitto per tutelare la sicurezza interna e i confini settentrionali e meridionali. Il sedicesimo precetto (Israele non occuperà Gaza) è già smentito da Netanyahu. Questi non intende affatto portare via le sue truppe come suggerirebbe Trump a vantaggio del controllo dell’Isf . Fra gli acronimi c’è una sola lettera di differenza, Tel Aviv riconosce e vuol mantenere solo la sua “d”, una difesa che pratica stermini e occupazione. Poiché il veleno è sempre nella parte conclusiva, eccolo il diciannovesimo precetto trumpiano, il più buonista, che fa da prologo alla candidatura al Nobel: “Mentre la riqualificazione di Gaza avanza e quando il programma di riforma dell’Autorità Palestinese verrà fedelmente portato avanti, potrebbero finalmente esserci le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese, che riconosciamo come l’aspirazione del popolo palestinese”. Un déjà-vu degli Accordi di Oslo del 1993. Peccato che questo bluff è già stato provato da un popolo turlupinato dalla geopolitica della manipolazione.

sabato 27 settembre 2025

Carnefice

 


Finiremo questo lavoro il più velocemente possibile” ha dichiarato il carnefice Netanyahu davanti all’assise vuota e svuotata di senso delle Nazioni Unite. L’unico senso l’avrebbe avuto un arresto immediato, seduta stante del premier israeliano, ricercato dalla Corte Penale dell’Aja per crimini contro l’umanità. E per genocidio, gridano migliaia di piazze nel mondo, al cospetto di esecutivi che condannano ma non agiscono, timorosi verso il protettore principe del malfattore: il governo degli Stati Uniti d’America. Non nuovo a coperture di malavitosi e malavitoso esso stesso per invasioni e guerre seminate e praticate per un secolo intero, dedicato all’altrui sottomissione per mano militare o per intrighi politici. Un ottimo esempio offerto alla banda Netanyahu intenta a strappare vite e terra ai palestinesi, un’entità etnica da cancellare. Questo il piano. Cui s’aggiunge il gentlemen agreement fra premier Erode e presidente Paperone per monetizzare. E dunque: sgombro, deportazione,  ricostruzione di Gaza trasformata in resort, posto che distruzione, sterminio, oblìo sono in corso e tutto sommato accettati dai concittadini israelo-statunitensi che col voto e la noncuranza tengono in vita i due leader. Nel suo astioso proclama all’Onu, una verità Netanyahu l’ha detta: “Abu Mazen e Autorità Nazionale Palestinese sono corrotti fino al midollo”. Lo sa per certo, anch’egli ha contribuito, come altri premier d’Israele a pagare la svendita dei diritti di quel popolo. Una liquidazione che parte da lontano. Passa per gli Accordi di Oslo, premessa di tutte le truffe cui lo stesso Arafat s’era prestato. Per ingenuità? per vanagloria? per aver creduto alla politica dei piccoli passi? Le motivazioni le ha portate nella tomba. Ma già un quindicennio prima il suo popolo, in Cisgiordania e Gaza, aveva voltato le spalle a lui, al suo partito e all’imbroglio d’un simil Stato che, chi vuole sotterrare i palestinesi e la loro causa, continua a rilanciare con la vuota formula dei “due Stati per due popoli”. Malvisto non solo dal sionismo-ortodosso ora rampante. Malvisto dal sionismo intero e dalla comunità ebraica mediorientale e mondiale. Una formula vuota, servita solo a ingannare, visto che il territorio della West Bank è da decenni infiltrato da coloni che diventano padroni di tutto, armi in pugno e Israeli Defence Forces alle spalle. Nel suo manicheismo, tipico d’ogni colonialista, d’ogni nazionalista, Netanyahu cita la missione ebraica contro il Male, cioè Hamas, Hezbollah, Pasdaran e l’Iran intero, più gli Houti. E con la propaganda rovescia i termini d’una realtà ormai chiara a tutti. Lo Stato d’Israele, il distruttore del Medioriente sin dalla sua nascita nel 1948, vuole divorare chi ha intorno. E’ uno Stato antropofago, mangia il cuore di chi lo circonda, dopo essersi posto come entità virale su esistenze millenarie. Fermarlo? Sembra impossibile, vista la crisi identitaria d’un istituto creato per bloccare le guerre mondiali, ma mai le locali. Visto il dissesto del multilateralismo e della cooperazione cui gli Usa tagliano fondi, con Cina e Russia disinteressate e concentrate su altre assisi (Brics, Organizzazione della cooperazione Shanghai). Del resto anche l’Occidente si trova a suo agio nel G20 o nella Nato, in un mondo che chiude le porte alle trattative e impone la legge del più ricco e forte, tecnologicamente e militarmente. Mentre il carnefice Netanyahu e suoi simili sorridono.

giovedì 25 settembre 2025

Diplomazia dei minerali

 


Può essere definita “diplomazia dei minerali”, il volto rassicurante per accaparrarsi elementi naturali strategici per produzioni di alta tecnologia civile, bellica e nano tecnologie, rispetto all’altro passo per ottenerli: le occupazioni territoriali e le guerre. Pronto a servirsene è il Pakistan, per rilanciare una relazione geopolitica pluridecennale verso il colosso mondiale statunitense. Il matrimonio politico fra Washington e Islamabad, passato attraverso i giri di walzer dei presidenti americani in Oriente e le ambiguità dei leader pakistani oscillanti fra un laicismo politico non esente ad aperture para confessionali benevoli col jihadismo, è da alcuni anni in aperta crisi. Con la ricaduta internazionale di una nazione in crescita demografica esponenziale, scelta negli anni Sessanta e Settanta dalla Casa Bianca quale alleato asiatico da contrapporre all’India pro sovietica e alla Cina rivoluzionaria, e perciò rimpinzata di testate atomiche e addestrata da “consiglieri” del Pentagono e della Cia. Ma il Pakistan dei clan Bhutto e Sharif, avidamente impegnati in intrallazzi familiari che consentivano ruberie ai reciproci governi alternatisi al comando, prendeva derive non sempre consone a una geopolitica che nell’ultimo quarto di secolo lo stesso Studio Ovale ha smarrito o fallito. Da lì stalli e intoppi che ora l’affarista Trump, interessato ad arricchire sé stesso e i suoi sodali dicendo di far grande l’America, punta a superare poiché parla il medesimo linguaggio della leadership pakistana: un incamerare dollari mascherato da “interesse nazionale”. Il rilancio d’un nuovo corso con premesse in atto dalla scorsa primavera, ruota attorno al mantra della “lotta al terrorismo”. Che se, un quindicennio fa raggiungeva l’apice con l’eliminazione ad Abbottabad del ricercato numero uno, Osama bin Laden, certificava pure l’ambiguo ‘doppismo’ dei Servizi pakistani, a metà strada fra l’inefficienza e la connivenza col qaedista latitante.  Altra fase, comunque, che l’attuale binomio politico-militare pakistano con Shehbaz Sharif e Asim Munir, ritiene ampiamente superata e normalizzata attraverso rapporti sanati con gli alleati storici occidentali, Stati Uniti in testa. Dunque, largo agli affari. 

 

Cinquecento milioni di dollari bussano alla porta del governo locale per ottenere minerali pregiati dal sottosuolo. E se gran parte del commercio mondiale piange e subisce i dazi imposti dal tycoon newyorkese per le merci esportate Oltreoceano (l’India se li ritrova addirittura al 50%), Islamabad riceve trattamenti al 19%, una gabella fra le più basse che il presidente Usa ha lanciato nelle sue maramaldesche trattative. Così nei mesi scorsi è stato posto il primo tassello allo scambio fra una delle principali strutture tecnologiche dell’Esercito pakistano, Frontier Works Organization e United States Strategic Metals, società del Missouri, specializzata nel riciclaggio di minerali critici come il litio. Cuore dell’accordo continuano a essere le ‘terre rare’, più rame e antimonio. Si tratta d’un pezzo dello scontro produttivo-economico che contrappone gli Stati Uniti alla Cina, avvantaggiatissima per avere in casa molte di quelle 17 polveri pregiate, indispensabili alla produzione dei famosi semiconduttori e sistemi di difesa. Il ventre pakistano può sopperire alle necessità primarie della Silicon Valley californiana, ma c’è un problemino. Buona parte delle miniere si trovano in due zone minate: il Belochistan a sud (che tesaurizza piombo, zinco, cromite, scandio, rame e oro, celebre la montagna Reko Diq), il centrale Khyber Pakhtunkhwa (ricco di rame). Però in quei luoghi insiste la presenza armata di gruppi jihadisti tutt’altro che propensi a far fare affari a un governo che combatte. Ulteriori giacimenti sono presenti al nord nella regione kashmira, tuttora contesa con l’India. Insomma sono aree dove le aziende di scavo dovranno fare i conti con chi su quel territorio vive e prospetta un proprio futuro. Distruttivo e distopico, ma tant’è. Ne sa qualcosa proprio Pechino la cui Metallurgical Construction Corporation, attiva dall’inizio del nuovo Millennio su quell’area depressa e povera, e oggetto di boicottaggi e attentati da organizzazioni come Baloch Liberation Army, Lashkar-e Taiba, Jaish-e Mohammad. Negli ultimi quattro anni una ventina di cittadini cinesi risultano fra le vittime di azioni armate dei suddetti gruppi che animano una protesta popolare. Contestano un utilizzo di manodopera, anche semplice, esclusivamente cinese a tutto svantaggio dei locali. Oggi anche Pechino guarda di buon occhio gli appalti americani: aumentare imprese e scavi può limitare l’incidenza di minacce e aggressioni jihadiste. Esistono milioni cubi di materiale da prelevare, ce n’è per tutti. L’importante è scavare e capitalizzare.

lunedì 22 settembre 2025

Fuori Alaa

 


Giunge con estremo ritardo, ma è bene che sia arrivata, la liberazione d’un attivista storico d’Egitto: il quarantatreenne Alaa Abd El-Fattah, imprigionato nel 2013 a seguito del golpe bianco di Al Sisi, e poi nuovamente nel 2019, dopo una paradossale scarcerazione che nelle settimane seguenti gli rinnovava una pena di cinque anni per aver diffuso “notizie false” sui social media. Lo fanno uscire di cella il suo persecutore presidente egiziano, che addirittura lo grazia assieme ad altri detenuti politici, e il premier britannico Starmer fino a questo momento accogliente solo a parole delle suppliche della madre di Alaa, la docente universitaria Laila Soueif. La quale s’era spesa tantissimo per il rilascio del figlio che ha cittadinanza anche britannica, da lì la richiesta di coinvolgimento di Downing Street. Laila coi suoi settant’anni oggi sembra una novantenne: l’hanno piegata le pene patite e le lotte intraprese a favore del primogenito. In questi anni ha praticato essa stessa debilitanti scioperi della fame nonostante condizioni sempre più precarie di salute. Le testimonianze delle altre figlie, di amici, le stesse immagini della donna confermano come la professoressa negli ultimi cinque anni sia invecchiata per le sofferenze fisiche e morali subìte dalla famiglia. Perché adesso questa grazia? cosa significa? Da un lato c’è da constatare che Alaa ha quasi scontato per intero l’ennesima condanna, dall’altro c’è l’attuale scelta del governo inglese di esporsi a favore d’un riconoscimento dello Stato Palestinese. Mentre il regime del Cairo segue i dubbi sollevati da Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita per i recenti attacchi aerei di Israeli Air Force al Qatar, un esplicito schiaffo alle stesse petromonarchie propense a stabilire buoni rapporti con Tel Aviv attraverso gli “Accordi di Abramo”. Ora quest’ultime compiono un passo indietro di fronte all’aggressiva strafottenza dell’esecutivo Netanyahu, il cui isolamento diplomatico è globale. Con l’odierno pronunciamento all’Assemblea delle Nazioni Unite anche di Regno Unito, Australia e Canada, la stragrande maggioranza dei Paesi rappresentati nel Palazzo di Vetro (151 su 193, l’Italia resta nel guado di un “non ora” voluto da una Meloni  filo Maga) chiede quello Stato Palestinese che Israele nega praticando un genocidio strisciante a Gaza e l’occupazione militare e coloniale della Cisgiordania. Comunque l’uomo della repressione interna in Egitto non è cambiato. La sua è l’ennesima mossa buonista per conservare un profilo passabile da mediatore internazionale col quale riesce a conservare uno scranno nei tavoli di trattativa. Lì la partita col mondo islamico la gioca il turco Erdoğan e i rapporti con l’Occidente statunitense li tiene il saudita bin Salman. Sisi sorride e grazia un detenuto impossibile da tenere ai ferri pure per ragioni di passaporto, la svolta potrebbe offrirla liberando migliaia di oppositori di cittadinanza solo egiziana. Non lo farà. 


 

 

domenica 21 settembre 2025

La geopolitica dell’ipocrisia

 


Riconoscere uno Stato Palestinese, come intende fare domani all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il Regno Unito, assieme a Canada e Australia, dopo cento e otto anni dalla Dichiarazione di Balfour, ma soprattutto dall’avvìo dello sterminio dei gazawi che dura da quasi due anni, rappresenta l’ennesima incongruenza d’una geopolitica occidentale incentrata sull’ipocrisia. Meglio tardi che mai, sentenzieranno i Soloni dei passi piccini piccini che girano in tondo su sé stessi confermando un’assoluta inutilità. Ma una realtà schiacciata e scacciata, già con la Nakba del 1948, come quella della Palestina storica che proprio i governi britannici sacrificavano alla nascita di Israele, contrapposta alla millenaria vita dei locali arabi e beduini, è un tarato controsenso tenuto in vita per decenni. Durante i quali lo Stato sionista, allora a maggioranza laburista, faceva di tutto per affermare la sua identità etnica a discapito di altre comunità; missione proseguita dall’epoca dei kibbutz a quella d’una nazione sempre più centralista e militarista. Altro che utopia collettiva… Insieme a colleghi europei, il leader britannico Starmer parla di “speranza di pace a una soluzione di due Stati”, come se tutto ciò ch’è accaduto dalla firma degli Accordi di Oslo (1993) in poi non si fosse mai verificato. Gli stessi Ilan Pappé, storico, e Eyal Weizman, architetto, quest’ultimo con doppia cittadinanza britannico-israeliana, da tempo testimoniano la finalità di pulizia etnica e le strategie d’occupazione attraverso le colonie nel presunto territorio destinato ai palestinesi della Cisgiordania. Prigionieri anch’essi in una casa che non è mai stata loro, perché continuamente minacciata da Israel Defence Forces e da ebrei armati. Gli intenti della politica d’ogni governo di Tel Aviv, laburista, Likud, sino all’oltranzismo ebraico delle più recenti formazioni presenti nella Knesset, da anni riduce qualunque capacità di vita ordinaria per i palestinesi, fino ad attentarne l’esistenza interrompendola con azioni armate, ancor più se si verificano rivolte - le Intifade del 1987 e del 2000 - o  singole iniziative di ribellione personale anche omicide. 

 

 


L’alibi è la ‘sicurezza’ d’Israele e della sua gente, che però continuamente minaccia la vita della comunità araba pur nei territori assegnati, che si riducono sempre più. Per i 730 chilometri del Muro voluto da Sharon (2003), per continui insediamenti di coloni provenienti da cento Paesi del mondo che nulla hanno a che vedere col Medioriente, rivendicando un diritto atavico che è pura promozione della sopraffazione e sostituzione etnica.  In queste ore non un membro di Hamas ma Chris Doyle, direttore del Consiglio per la comprensione arabo-britannica (CAABU), afferma: “Molti palestinesi avrebbero voluto celebrare questo momento simbolico, ma non possono. La realtà è che il riconoscimento non porrà fine ai bombardamenti, alla carestia, al genocidio né al sistema di apartheid che i palestinesi stanno sopportando". Perché la soluzione finale con cui Netanyahu e Trump puntano a svuotare la Striscia, deportare il milione e mezzo di cittadini rimasti e comunque sfollati, affamati, sfibrati da malattie endemiche che li possono cadaverizzare da un giorno all’altro, accanto a chi è fucilato da terra e dall’aria, è il futuro previsto per tale Stato fantasma. La cui controfigura è la West Bank ebreizzata dai coloni che raggiungono il milione e non si fermano, secondo la logica di togliere spazio al nemico, soffocarlo in dimensioni sempre più esigue, stritolarlo, farlo impazzire. Mentre le risoluzioni di un’entità, purtroppo decotta qual è l’Onu, vagano vuote nel Palazzo di Vetro, perché inapplicate, visto che da Oltreoceano non si vuole farle applicare. E non solo per il famigerato ‘diritto di veto’ dei Grandi, mai cancellato nell’organismo internazionale, ma perché la politica americana, Democratica o Repubblicana e ora Maga, ha sempre voluto e imposto questo. E vuole eternizzarlo.

martedì 16 settembre 2025

L’inferno di Gaza

 


E’ fuga dall’inferno. Inferno di bombe, crolli, macerie sulla carne per chi arranca nella polvere. Di corpi che bruciano dopo aver visto per ventitrè mesi spegnersi ogni tipo di persona: conoscenti e sconosciuti, genitori e fratelli, vecchi e donne, adulti e lattanti rinsecchiti, combattenti, imam, preti della pace. Tsahal ammazza chiunque per ripulire la Striscia. Pulizia etnica. Genocidio. Oggi lo dice pure una commissione indipendente delle Nazioni Unite, immediatamente bollata da Israele come antisemita. Mentre dal cielo droni e missili abbattono gli edifici già spettrali rimasti ancora su, entrano carri e bulldozer a spianare quel che resta coi cannoni e con le lame d’acciaio. Azzerare per purificare e incamerare un territorio impossibile da rivendicare con qualsiasi falsificazione della terra dei padri.  Eppure il mondo lascia fare. A cominciare dal Segretario di Stato americano Rubio, giunto per omaggiare Netanyahu, rassicurarlo che sì, anche questo può farlo e l’affare futuro andrà in porto. Mano sul cuore e volo a ritroso. Con trecentocinquantamila in vagabondaggio forzato verso non luoghi, visto che tutta la Striscia è un ammasso di pietre e cemento terremotati, e duecentomila fra morti e feriti, il primo passo del Grande Israele si sta compiendo. Basterà deportare l’altro milione e mezzo di anime in pena. Numeri enormi, certo. Ma fra la morte per affaticamento, denutrizione, svilimento in un’esistenza sinistrata, l’Erode dell’infanzia palestinese e il tycoon suo protettore sono certi che la deportazione verso il Sudan, il deserto libico, qualche isola dell’arcipelago indonesiano verrà accettata da chi ha la certezza di rimanere profugo vita. Il vertice arabo, riunito ieri a Doha, perde il suo tempo a condannare Tel Aviv più per l’attacco alla capitale qatarina, alla funzione mediatrice dell’emiro al-Thani che alla disintegrazione del territorio gazawi, all’ecatombe dei suoi abitanti, alla disgregazione degli stessi costretti a soluzioni di confino socio-politico. Sessanta nazioni, anche potenze regionali di peso coi presidenti - la Turchia di Erdoğan, condanna, stigmatizza il banditismo d’Israele, l’Iran di Pezeshkian, propone di tagliare i legami con quel Paese, l’Egitto di al Sisi minaccia di rivedere gli accordi precedenti, ma già il Pakistan col filo americano Sharif annuncia solidarietà al Qatar più che ai palestinesi, e il vicepresidente indonesiano Raka parla vagamente di sopravvivenza delle nazioni islamiche, dignità dei popoli, santità del diritto internazionale. Parole sacre, concetti giusti però nessuna azione, quasi fosse un’assise dell’Unione Europea, di quelle che annunciano giustizia al cospetto di chi fa del sopruso criminale una ragione esistenziale. Dunque, per chi scappa e vaga, senza rifugio, speranze, luce futura, resta l’abbaglio del sole cocente, il caotico ammasso di povere cose recuperate a rischio d’essere schiacciati sotto gli ennesimi condomini abbattuti. Resta un errare perpetuo fino all’esaurimento di forze. E forse, se non si crepa oggi, una tenda lacera, un giaciglio di polvere, l’ennesima elemosina d’un pasto per poter andare più in là. Sempre comunque in un tratto, centrale o inferiore, dei quaranta chilometri già adesso scippati. In attesa di finire chissà dove tranne nella Palestina che semplicemente Israele tutta, non Netanyahu, ha deciso di sotterrare.  

lunedì 15 settembre 2025

No pasan

 


Non passano loro, i ciclisti della Israel-Premier Tech, e non passa l’intero gruppo della Vuelta, fermato a cinquantasei chilometri dal traguardo finale di Madrid, perché nella capitale era rivolta. Migliaia di spettatori hanno divelto le transenne occupando il percorso, si sono scontrati con la Guardia Civil, hanno esaltato una protesta che aveva già avuto in più punti della corsa a tappe dissensi, proteste, accuse alla formazione creata ad arte dall’immobiliarista  israeliano-canadese Sylvan Adams per sostenere Israele attraverso il ciclismo. Certo, nel progetto partito undici anni or sono, c’è anche un ex corridore israeliano, Ran Margaliot, professionista poco conosciuto, per i limiti agonistici d’una carriera spesa fra i giri di Slovenia, Picardia, Baviera, tutte gare minori. Margaliot, nel progetto di Adams e del socio statunitense Baron, è servito a offrire credibilità agonistica a un’operazione che ha tutto il sapore di propaganda politica, non tanto perché Israel Cycling Academy sottolineasse un’appartenenza statale pur in un’iniziativa privata, ma per l’insistenza con cui il suo mentore, che tre anni fa ha trasformato la denominazione in Premier Tech (azienda canadese di elettrodomestici per la casa), conservava ostinatamente il nome Israel accanto allo sponsor. Del resto Adams si fa vanto di promuovere nel mondo sportivo la causa d’Israele. Operazione di supporto all’attuale linea governativa e di Stato che gran parte del mondo considera indegne. C’è, dunque, poco da stupirsi se le contestazioni piovono sul manipolo di faticatori del pedale ingaggiati dalla squadra, che nei giorni scorsi aveva rimosso dalla maglia il riferimento a Israel, mentre le bandiere palestinesi dal bordo dei tornanti baschi invadevano il percorso. Non è servito. Nel finale madrileno  una marea umana ha bloccato tutto. Alla faccia di Adams e del suo progetto di “diplomazia sportiva”, già utilizzata nel periodo dello sdoganamento d’Israele nel mondo arabo con gli “Accordi di Abramo” cui Israel Cycling Academy contribuiva partecipando al Giro degli Emirati (sic). 

  

Ora il sindaco della capitale spagnola Martinez-Almeida grida alla vergona gettata addosso al Paese dai manifestanti e pure dal premier Sanchez, ritenuto “responsabile della violenza vincitrice sullo sport”. Martinez-Almeida un cinquantenne il cui curriculum lo dà già ventenne inserito nel Partito Popolare fino all’ingresso in pompa magna nella municipalità nell’anno 2019, in virtù dell’alleanza del suo partito con le formazioni Ciudadanos (gruppo liberale nato nel 2005) e Vox (più recente raggruppamento di estrema destra che proprio nelle elezioni dell’aprile 2019 fece un balzo al 10% con punte nella Spagna provinciale e pure nei distretti di Madrid e Valencia). Il rampante Martinez-Almeida sotto il doppiopetto liberale cela parentele imbarazzanti quale nipote del diplomatico franchista Emilio de Navasqués. Sarà questo lo spirito che l’ha avvicinato alla ricca borghesia barcellonese monarchica, nazionalista, nostalgica da cui proveniva il primo presidente di Vox, il professor Quadras-Roca? O forse è più a suo agio con l’attuale leader del gruppo alleato Abascal Conde, sociologo rude abbastanza da definirsi esplicitamente reazionario, antiislamico e antifemminista per onorare la memoria del nonno sindaco nella Spagna franchista. Gente che in ogni proclama, in qualsiasi affermazione pubblica rigurgita concetti di violenza inaudita, e poi addita gli avversarsi, li accusa, li incolpa di “seminare odio”. Come fa la loro amica, la presidente italiana del Consiglio Giorgia Meloni. Anch’ella beneficiaria di un’alleanza di comodo e d’affari con cui guida fra astensioni maggioritarie un’Italia già “rieducata” dal suo padre putativo Berlusconi e imbesuita da un’opposizione talmente balbettante da risultare scioccamente inutile. Forse le nostre piazze, in troppi casi tradite eppure palpitanti, seguendo l’esempio degli ostinati espectadores de ciclo amantes de la libertad, possono alzare la propria voce, da opporre ai passatisti, ai colonizzatori e usurpatori dello sport, ai massacratori del popolo di Palestina.