lunedì 13 gennaio 2025

Egitto, Mansour il vendicatore

 


C’è un islamista egiziano dal nome comune nel suo Paese, al-Mansour, che ingombra le notti del presidente Sisi. Se anche testate con l’occhio puntato sul medioriente registrano reazioni più o meno dirette alla campagna contro Sisi lanciata da mesi da tal Ahmed al-Mansour, qualche fremito l’uomo forte del Cairo deve averlo. E in effetti in un suo recente intervento ha dischiarato: “Se il vostro presidente non è buono, se c'è sangue sulle sue mani, se ha rubato del denaro, dovreste essere preoccupati per il vostro Paese. Grazie a Dio, nessuno di questi problemi esiste". Più che di timori trattasi di autoassoluzione. Eppure osservatori interni hanno messo in relazione queste frasi al tam-tam sui social lanciato da al-Mansour con l’hashtag: “E’ il tuo turno, dittatore!” slogan che valeva contro Asad e che Mansour ha mutuato contro l’ennesimo satrapo che detesta. Anche perché Ahmed è un egiziano che ben conosce, avendolo vissuto, il trapasso dalle speranze del suo Paese riposte nella cacciata di Mubarak,  l’avvìo d’un governo liberamente eletto nel 2012 (quello guidato da Morsi), le proteste davanti alla moschea Rabaa al-Adawiya dopo la rimozione forzata dell’esecutivo della Fratellanza Musulmana, e la strage del 13 agosto 2013 con oltre un migliaio di manifestanti uccisi uno a uno dalle Forze Armate dirette da Sisi. Negli interventi che posta sul web, al-Mansour sostiene di non aver mai fatto parte della Confraternita, d’essere riparato in Siria per sfuggire alla repressione interna e d’essersi poi unito alle milizie islamiste. Ora che i combattenti di Hayat Tahrir al-Sham hanno conquistato il potere a Damasco, il miliziano d’Egitto afferma ch’è giunta l’ora di spazzare via Sisi. Fin qui la propaganda, però non esplicita come. Che l’odio verso la lobby militare e il presidente in persona siano estremamente sentite nel grande Paese arabo non è una novità. Ma i motivi che lasciano da oltre un decennio al suo posto il generale sono vari. 

 

La protezione internazionale innanzitutto che, nel travagliato contesto locale, l’ha investito del ruolo d’uomo d’ordine facendolo tratto d’unione fra il vecchio laicismo militarista di cui l’Egitto esprime tuttora un modello caduto invece in Libia, Iraq, Siria, le petromonarchie sempre più attive sulla scena finanziario-geopolitica e il furore omicida e razzista d’Israele. In più Sisi continua ad avere dalla sua parte gli egiziani che sopravvivono con la “multinazionale delle Forze Armate” che dà da mangiare a milioni di famiglie i cui membri vestono la divisa o sono occupati nell’apparato statale, oppure lavorano nell’indotto della lobby estesa ad agricoltura, prodotti alimentari, edilizia, manifattura, turismo. Eppure una gran massa, più della metà dei cento milioni di concittadini, è fuori da tale cerchia. Costoro s’arrangiano, vivono come possono, non necessariamente foraggiandosi col traffico del contrabbando di talune aree come nel Sinai, ma stentando davanti a una crisi economica che morde i “non protetti”. Così Mansour si fa paladino del malcontento e serioso e minaccioso, per ora solo dai video, chiede le dimissioni dell’impostore, la liberazione dei 60.000 detenuti, la fine d’un regime. Mossa che pare velleitaria, visto che dal 2016 qualsiasi protesta pacifica è repressa, mentre inefficaci risultavano gli attentati con autobomba nelle maggiori città ed egualmente gli agguati contro i militari nel Sinai. Da anni qualunque azione non ha avuto seguito fra strati popolari oppressi, umiliati, smarriti, impauriti. L’ultimo oppositore noto, Abdel Alaa Fattah, condannato per critiche sui social meno taglienti di quelle del miliziano islamista, ha l’anziana madre in sciopero della fame da oltre cento giorni. Chiede la liberazione del figlio anche al governo britannico, vista la doppia cittadinanza dell’attivista, ma né Sisi né Starmer muovono un dito. Nella contemporaneità politica incrudelita ogni pietà è morta e questo infiamma i pensieri di Mansour e di chi progetta vendette.

martedì 7 gennaio 2025

Siria, cantieri in corso

 


Alle questioni formali, che comunque risultano sostanziali per quel che si trascinano dietro in fatto di diritti e rapporti fra i generi, su cui s’è soffermata la stampa mainstream che commentava la mancata stretta di mano fra Al Jolani-Ahmed Al Sharaa e la ministra degli Esteri tedesca Baerbock, si sommano e delineano aspetti che rivestiranno il fulcro del divenire siriano, necessariamente caratterizzato dalle volontà e i comportamenti dell’attuale ceto dirigente proveniente in toto da Hayat Tahrir al Sham, i miliziani scacciatori di Asad. La visita d’inizio anno della coppia franco-tedesca (accanto alla Baerbock c’era l’omologo francese Barrot) che l’Alta Rappresentante Ue Kallas ha rincorso come fosse una creatura che sua non era, evidenzia per l’ennesima volta gli indirizzi decisionali della politica europea provenienti non dai palazzi di Bruxelles ma da quelli berlinesi e parigini. Mentre gli europei tengono a ribadire princìpi su diritti e minoranze sui quali Al Sharaa ha ascoltato gli interlocutori, Qatar, Emirati Arabi Uniti e soprattutto Turchia hanno iniziato a trattare questioni banalmente materiali, ma assolutamente sentite dalla gente: ricostruzione edilizia di città e paesi sventrati dal pluridecennio di guerra interna e d’infrastrutture e servizi (centrali energetiche, strade, scuole, ospedali) danneggiati o polverizzati. I Paesi dei petrodollari non sono nuovi al ruolo di paladini della solidarietà all’Islam sunnita povero o disastrato, la Turchia erdoğaniana può mettere a disposizione l’apparato statale di Toki, l’azienda creata dai governi kemalisti ma ampiamente gestita dall’apparato dell’Akp dal momento della presa del potere a inizio del nuovo millennio. Toki è stata al centro di polemiche per una dirigenza votata al sostegno dell’attuale sistema di potere, ovviamente a sua volta ripagata dalle copiose commesse governative, però nel bene e nel male ha avuto un ruolo centrale nel supporto abitativo ai superstiti del tremendo terremoto del febbraio 2023 che ha contato cinquantasettemila vittime.  

 

Una delle ipotesi che il presidente turco caldeggia è la ricollocazione di ex rifugiati nella Siria della transizione. Il piano mira ad alleggerire, almeno in parte, la tensione che i 3,5 milioni di profughi creano da anni nelle metropoli anatoliche, soprattutto a Istanbul e Ankara. Un congruo numero di siriani sfollati dalle aree rurali sarebbero destinati alle terre di confine che fra Afrin-Kobane-Cizre, costituivano i cantoni del cosiddetto Rojava kurdo. Sarà possibile farlo? Se al posto delle precarie tendopoli, dove tuttora si ritrovano accampate decine di migliaia di famiglie, si dovessero profilare abitazioni più o meno strutturate la lusinga ci sarebbe eccome. Ultimo ostacolo alla “pulizia etnico-politica” è quel che resta delle Unità di Protezione del Popolo, le Ypg kurdo-siriane, che in molti punti sono ‘migrate’ a est mentre proseguono la difesa di Kobane. Che la situazione bellica interna non sia pacificata e un tratto di territorio continui a vedere presenze armate a ‘macchia di leopardo’ è confermato da notizie di reiterati scontri fra le due fazioni maggioritarie contrapposte in questi anni: il filo turco Esercito nazionale siriano e le Forze democratiche siriane a trazione kurda. Chi comanda a Manbij e sotto di essa, nelle centinaia di tunnel scavati e percorsi in lungo e in largo da differenti manipoli, non è deciso. Sebbene nel mese di dicembre la rotta del regime di Asad ha rafforzato anche qui la presenza degli arabi sunniti a danno dei kurdi che, secondo i primi soggiogavano la popolazione. I punti di vista continuano a divergere, ognuno ha, avrebbe, le sue ragioni come se dodici anni di sangue versato a fiotti non fossero serviti a guardarsi dentro, comprendere errori e orrori e lavorare per il futuro. La Siria di domani di cui molti parlano, ha il volto dell’Al Sharaa se non misogeno alla maniera dei più estremi talibàn, certamente poco disponibile verso la rappresentanza femminile probabilmente non solo esterna come frau Baerbock. E fra i cantieri della ricostruzione, quelli del ritorno dei fuggiaschi, il cantiere della convivenza etnico-confessionale si presenta come il più ardimentoso e rischioso. Specie se dovrà prevedere pure la ricollocazione dei detenuti jihadisti e dei loro familiari ostili a tutto e tutti.