mercoledì 23 aprile 2025

Kashmir, strage in valle

 


Assalto mortale nel divertimentificio voluto da Narendra Modi in Kashmir, regione contesa fra India e Pakistan. Secondo testimonianze rilasciate dai superstiti a polizia e media, un commando di tre persone è disceso da un’altura attaccando un nutrito gruppo di turisti che attraversava una vallata erbosa. “Io stavo facendo uno spuntino assieme a mio marito, è sopraggiunto un uomo e gli ha sparato a bruciapelo” è una delle dichiarazioni raccolte dalle forze antiterrorismo accorse sul posto per quello che il primo ministro dello Stato federale ha definito “il peggiore attentato contro i civili nella zona, un abominio degno d’ogni disprezzo”. Sul terreno sono rimaste ventotto vittime, molti sono turisti indiani, si parla anche un israeliano e un italiano. Finora la Farnesina non ha confermato questa presenza. Il ministro dell’Interno di New Delhi Shah s’è precipitato a Srinagar, capoluogo della travagliata regione, e lo stesso Modi in viaggio in Arabia Saudita è rientrato nella capitale. Le agenzie turistiche propongono da tempo visite sotto le catene montuose di quella che viene definita la ‘Svizzera indiana’, peccato che l’area sia tutt’altro che un’oasi tranquilla. Per le rivendicazioni amministrative del confinante Pakistan e per le incursioni armate di gruppi oltranzisti riuniti nell’autoproclamato 'Fronte della Resistenza' che si scaglia contro la presunta sostituzione etnica incentivata da Delhi, tramite uno pseudo turismo. Questo ha di recente raggiunto punte di tre milioni e mezzo di visitatori annui. Gli oppositori sostengono che una fetta di costoro resta stanziale nei luoghi; nell’ultimo biennio gli amministratori hanno rilasciato 83.742 certificati di domicilio a finti turisti. La situazione interna è precipitata dall’agosto 2019, quando il premier Modi ha revocato alcuni articoli di legge che decretavano l’autonomia di questo Stato, con conseguente blocco delle comunicazioni e arresti di migliaia di kashmiri che protestavano contro l’indebita ingerenza dell’esecutivo fautore dell’attuale governance gradita al partito di maggioranza, Bhratiya Janata Party

 

Anche organizzazioni come Amnesty International si sono interessate alle forzature che destabilizzano il Kashmir dall’interno con contrapposizioni fra la cittadinanza divisa su base politica e confessionale, contraddittoria realtà registrata peraltro in diversi Stati federali indiani e incentivata dalla linea razzista dell’hindutva adottata dal partito di maggioranza. Nel Kashmir, definito "la zona più militarizzata del mondo" per la presenza eccessiva di forze paramilitari indiane, continuano a concentrarsi pure le mire rivendicative del governo pakistano che fa leva su un doppio binario ufficiale e ufficioso. Quest’ultimo è incentrato sul gioco inquietante della sua Intelligence,  artefice da decenni di doppiogiochismi d’ogni sorta. Uno dei gruppi armati aderenti alla resistenza kashmira è l’Esercito del bene (Lashkar-e-Tayyiba) noto per operazioni sanguinosissime compiute anche contro cittadini pakistani e musulmani, nonostante il proprio credo islamico. Formato prevalentemente da nativi del Jammu e Kashmir, praticanti un sunnismo ultraortodosso, sin dagli anni Ottanta il suo scopo è controllare e condizionare l’andamento politico-amministrativo in quell’area anche a dispetto del governo di Islamabad, figurarsi di quello di Delhi. LeT ha ricevuto attenzioni, finanziamenti e “assistenza tecnica” dell’Inter-Service Intelligence che estende la sua lunga mano di potere su qualsiasi entità possa risultarle utile. Intanto, almeno per ora, il flusso turistico verso il Kashmir subirà un prevedibile rallentamento, mentre le manovre di ripopolamento e contrasto al medesimo difficilmente scemeranno. Angosciosamente fra i colori del ‘tour svizzero’ a ridosso dell’Himalaya, non sta mancando il rosso sangue.

martedì 22 aprile 2025

La macchia di papa Francesco

 


Avremmo dovuto vederci ancora, ma purtroppo non è stato possibile” dice la novantaquattrenne scrittrice e poetessa e giornalista ungherese Edith Bruck che da tempo ha fatto dell’Italia il luogo dove vivere e la lingua, non solo letteraria, con cui parlare. Il personaggio del mancato reincontro è papa Francesco e l’intervistatrice, che su La Repubblica ne raccoglie pensieri e lacrime per la scomparsa avvenuta nel Lunedì pasquale, l’interroga sul filo dell’abbraccio di quattro anni or sono definito dalla Bruck di “zucchero filato”.  Sicuramente non solo come metafora del candido abito talare del suo ospite. I ricordi di quei dialoghi si rincorrono vivissimi e ribadiscono un papa quasi laico, poco propenso a imporre preghiere, che la Bruck bambina angosciata nel lager di Auschwitz, quindi adulta e scampata allo sterminio nazista ma non al perpetuo dolore della Shoah, non praticava e non attua. Di quel colloquio privato rimane alla scrittrice lo stupore della delicatezza con cui Francesco non imponesse l’idea di Dio (“Dio è una ricerca continua, va cercato e non sappiamo dov’è”) questo lei rammenta d’aver sentito. E ancora rievoca la richiesta di perdono papale per il millennio di persecuzioni e conversioni forzate imposte dalla Chiesa cattolica agli ebrei, e dell’antisemitismo che ne consegue tuttora. La giornalista l’incalza: Ancor oggi? “Francesco no, la Chiesa sì. Anche se io penso, e sono stata l’unica a dirlo, che abbia sbagliato quando ha parlato di un genocidio a Gaza”. “Bisogna capire che il genocidio è un’altra cosa: significa mettersi a tavolino medici, scienziati, e dire: con i capelli riempiamo le fodere, col grasso facciamo il sapone. Paragonare qualsiasi tragedia alla Shoah significa appiattire, diminuire, banalizzare una storia che non ha eguali”. Ecco. Anche per le menti più lucide dell’ebraismo, l’unico genocidio è quello subìto dalla sua gente. Millenni di Storia che raccontano altri terribili Olocausti non sono contemplabili né paragonabili al proprio. L’unico. Il solo che si erge e primeggia sulle sofferenze di chiunque altro. Figurarsi se un popolo che l’ha subìto sulla viva carne possa meditare sulle attuali nefandezze d’un governo che lo rappresenta. Impossibile, è un’eresia. E’ quell’antisemitismo che anche Edith Bruck richiama per non voler vedere l’ennesimo genocidio, stavolta perpetrato a Gaza. Per la scrittrice papa Francesco può riposare in pace, ma non ha fatto abbastanza per l’antisemitismo.

sabato 19 aprile 2025

Nucleare iraniano: viaggio turistico a Roma

 


E’ passata per Roma, conseguenza dei buoni uffici creati dallo scambio d’inizio anno fra Mohammad Abedini e Cecilia Sala rispettivamente arrestati a Milano e Teheran, la seconda tappa dei colloqui sul nucleare che un Trump pacificatore ha sdoganato con un precedente incontro in Oman. E’ il nuovo approccio sulla questione del presidente-tycoon che nel 2018 aveva bloccato il Joint Comprehensive Plan of Action sottoscritto nel 2015 dai presidenti Obama e Rohani. Non contento il Trump aggressore a inizio 2020 faceva assassinare Qassem Soleimani, puntando a umiliare l’apparato iraniano della forza che non potè ribattere se non con minacce formali. Altri tempi. In questa fase il super Donald che vuol far cessare la guerra in Ucraina, ma non quella di Gaza, “convince” Netanyahu a non bombardare i luoghi dove sorgono le centrali nucleari iraniane, soprattutto non concedendo all’alleato i mexi ordigni di profondità che andrebbero a stanare i laboratori di arricchimento dell’uranio che nei pur conosciuti siti stazionano sottoterra. Insomma per Washington non è il momento delle bombe sul suolo iraniano, si preferiscono i tavoli di trattativa. Questa è ripartita dal citato JCPA con l’aggiunta che il tempo e i cinque anni di rottura di colloqui e accordi hanno prodotto nel pur problematizzato Paese mediorientale un accrescimento delle quantità di uranio che, secondo l’Agenzia internazionale preposta, attualmente s’aggira sui 300 chilogrammi. Un quantitativo capace di rendere vicino di mesi il traguardo per l’arma atomica. Ne hanno discusso a Roma l’inviato speciale statunitense Witkoff e il ministro degli Esteri di Teheran Aragchi stazionando, però, in stanze separate nella sede dell’ambasciata dell’Oman nella zona della Camilluccia. Dal non lontano quartier generale della Farnesina il ministro Tajani s’è prestato a un’accoglienza istituzionale, mentre il ministro dell’Oman Albusaidi faceva la spola fra le stanze nell’ambasciata così da mettere a confronto le posizioni dei due. Stranezze diplomatiche capaci di evidenziare l’oggettiva difficoltà d’intendimento. Infatti la missione imposta da Trump al suo uomo in faccia alla pacificazione consiste nel chiedere agli iraniani di cessare ogni arricchimento, anche quello per uso civile. Di contro la Guida Suprema Khamenei fa dire al proprio ministro che di smantellamento delle centrifughe non se ne parla e non si scende al di sotto di quanto patteggiato dieci anni or sono. A meno che gli Stati Uniti non predispongano un cospicuo ritiro delle sanzioni applicate, partendo da quelle sulla vendita del petrolio. Per ora un braccino di ferro che necessiterà sicuramente di ulteriori avvicinamenti (per il terzo round sabato prossimo si torna in Oman) anche perché una realistica trattativa supererà sicuramente i due mesi con cui Trump afferma di dover decidere il futuro. Intanto l’alleato israeliano le bombe può proseguire a sganciarle sugli inermi civili palestinesi, gli iraniani possono attendere.  

giovedì 17 aprile 2025

Hezbollah realismo politico e rischi del disarmo

 


Non soltanto la riorganizzazione della Striscia di Gaza - intesa come ecatombe, cenerizzazione, snaturamento, svuotamento e deportazione della sua gente più o meno sopravvissuta - nei piani dell’inestirpabile alleanza israelo-statunitense c’è altro. I malefìci di Tel Aviv e Washington proseguono sul Libano, e dopo l’avvìo distruttivo degli oltre 1600 attacchi dal cielo e da terra di Israel Defence Forces con un migliaio morti e l’azzeramento del vertice politico-militare del Partito di Dio, l’azione diplomatica cerca sponda su figure istituzionali libanesi come il neo presidente Aoun. Lui è Joseph, niente a che vedere con l’omonimo e ormai ultranovantenne Michel che ha guidato il Paese dei cedri dal 2016 al 2022, se non nel fatto di vestire la divisa col grado di generale. Due militari dunque, entrambe maroniti come vuole la distribuzione delle cariche su base confessionale, ma mentre Michel nasceva da umile famiglia nel quartiere simbolo della comunità sciita, quell’Haret Hreik pluribombardato nel settembre scorso dai caccia israeliani, e forse per questo e soprattutto per malleabilità politica aperto e inclusivo verso Hezbollah, l’attuale presidente pur avendo radici in un altro sud a maggioranza sciita che guarda verso Israele, ha visione e coperture politiche differenti. La sua elezione, nel gennaio di quest’anno, ha avuto il sostegno della tradizione maronita, dalle Forze Libanesi al Partito Kataeb legate ai cupi trascorsi della guerra civile interna, spesso al servizio proprio di Israele. Comunque anche i drusi di Jumblatt gli hanno offerto sponda e voti. Così, piegati militarmente dai ripetuti assalti di Tsahal, i resti di Hezbollah hanno dovuto subire l’attuale quadro istituzionale fortemente voluto dai piani predisposti da Stati Uniti, Francia e Arabia Saudita, tutto col gradimento estremo nella Knesset. Ora nel dibattito internazionale in corso c’è all’ordine del giorno un antico pallino della destra libanese: la smobilitazione delle milizie di Hezbollah. Che avevano avuto ragione d’esistere e rafforzarsi un ventennio or sono a partire dalla difesa del suolo patrio dagli assalti d’Israele, vista l’inconsistenza e indeterminazione di quell’esercito in cui l’attuale presidente vanta un tratto della propria carriera. E che erano diventate la spina nel fianco settentrionale dello Stato sionista per la pressione sui villaggi di confine a suon di lanci missilistici. Hezbollah, sostenuto dal partito dei Pasdaran iraniani, è la motivazione chiave con cui il governo Netanyahu ha ampliato il fronte ed è tornato a colpire e invadere il Libano.

 

Non solo tartassando la rete dei militanti sciiti, feriti e uccisi con attentati spettacolari, pensiamo all’esplosione contemporanea di beeper e walkie talkie nelle loro mani, ma infiltrandola tecnologicamente, umiliandola organizzativamente, danneggiandola militarmente fino a renderla quasi impotente. L’impatto della sua passata forza, evidenziato nel conflitto del 2006 e messo a disposizione della difesa nazionale, è svanito in poche settimane mentre finivano triturati dalle esplosioni i maggiori esponenti, compreso “l’inattaccabile” Nasrallah. Uno smacco pesantissimo che dovrebbe essere letto con occhio preoccupato dalla società libanese visto che Israele  prosegue la pressione su quel territorio e la memoria della popolazione non va solo a quanto accadde nel 1978 e 1982, ma a quanto Israele mostra in Cisgiordania e sulle alture del Golan. L’agenzia Reuters ha rivelato che un alto funzionario di Hezbollah si mostra disponibile a trattare con Aoun la questione delle armi solo se Israele si ritira completamente  e interrompe gli attacchi sul Paese. L’Idf è tuttora posizionato in cinque punti strategici vicino al confine meridionale libanese e si sarebbe dovuto ritirare già da due mesi, ma anche le milizie sciite dovevano deporre le armi e questo non è accaduto. Fra smentite e discorsi a mezza bocca chi è vicino al Partito di Dio fa sapere che sarebbe disponibile a un dialogo nazionale e allo sviluppo d’una strategia di difesa, non al disarmo. Dal momento dell’insediamento Aoun s’è impegnato a garantire che lo Stato libanese diventi l'unico garante bellico: "La decisione di limitare il possesso di armi allo Stato è stata presa. Sarà attuata col dialogo, non con la forza”. Fra le ipotesi in circolazione c’è quella di un’integrazione nell’esercito di Beirut dei combattenti di Hezbollah. Bisognerà vedere cosa pensa Teheran, sebbene un’ipotesi favorevole al disarmo esiste e viaggia attorno ai colloqui sul nucleare ripresi fra la delegazione statunitense e iraniana in Oman, e che sabato avrà come ulteriore sede l’Italia. Fra gli analisti c’è chi pensa che conservatori e riformisti nel Paese degli ayatollah assillato dalla morsa economica dell’embargo convergano tutti sull’opportunità riapertasi coi dialoghi, che proprio la prima amministrazione Trump aveva troncato. I negoziatori parleranno delle percentuali d’arricchimento dell’uranio ma pure degli assetti geopolitici mediorientali. E per il Libano la situazione è sicuramente più malleabile rispetto a Gaza.

giovedì 10 aprile 2025

Turchia fra codice penale e codice politico


L’articolo 299 del codice penale turco, che riguarda “insulti al presidente della Repubblica”, è lo scoglio contro il quale s’infrangono le reali o presunte trasgressioni di attivisti, politici, giornalisti e semplici cittadini. Un richiamo pretestuoso all’articolo da parte della magistratura può diventare l’alibi utilizzato da chi ne beneficia per incarcerare per almeno tre anni chi solleva non insulti ma critiche, motivate e politiche che dovrebbero essere previste dal confronto democratico. Eppure il pericolo rappresentato dal tentato golpe del luglio 2016 ha sedimentato questa violazione rendendola non grave, bensì gravissima e accoppiata all’articolo 301, che punisce l’offesa alla “turchicità” dello Stato e delle Istituzioni con pene doppie (da sei anni in su), può costituire la pietra tombale per l’attività politica dell’eventuale condannato. Ovviamente c’è di peggio: il reato di terrorismo, che colpisce la sicurezza e la tutela nazionali, può condurre al carcere a vita. Il noto leader e fondatore del Partito Kurdo dei Lavoratori (Pkk) Abdullah Öcalan è danneggiato da tale accusa e recluso da ventisei anni.  Un’altra figura di primo piano della politica in Turchia, il co-presidente dell’ex Partito Democratico dei Popoli (Hdp ora Dem) Selahattin Demirtaş, è incarcerato da circa un decennio per presunto fiancheggiamento del Pkk, mentre l’ex sindaco di Istanbul di sponda repubblicana Ekrem Imamoğlu ha scampato quest’accusa, ma è detenuto in attesa di giudizio per reati di corruzione. A nulla è servito il plebiscito con quindici milioni di consensi col quale l’antico partito kemalista Chp l’ha incoronato candidato alle presidenziali del 2028, elezioni che il capo dei repubblicani Özel vorrebbe anticipare. E nulla sembra smuovere una protesta a sostegno del sindaco che nella metropoli sul Bosforo ha toccato punte di oltre uno o due milioni di manifestanti per strada. Anzi gli scontri che ne sono seguiti e hanno portato in carcere circa duemila persone, per quanto molte rilasciate, sono additati dal governo dell’Akp e dallo stesso Erdoğan come un pericoloso turbamento della sicurezza interna. 

 


All’assalto ai manifestanti a suon d’idranti, spray urticanti, lacrimogeni e successive denunce per procurate violenze su centocinquanta poliziotti, si aggiunge la reclusione per trecento contestatori e centotrentanove rischiano accuse per diversi anni di detenzione. Fra costoro sono finiti i giornalisti Bulent Kilic, Kurtulus Ari, Yasin Akgul, Zeynep Kuray, Gokhan Kam, Ali Onur Tosun, Hayri Tunc intenti a seguire per vari media i sit-in e i presidi creati nei giardini di Saraçhane accanto all’edificio che ospita il Municipio. I cronisti avrebbero violato una legge che “vieta la partecipazione a proteste non autorizzate”, sebbene fossero lì non come partecipanti alle manifestazioni ma per garantire al Paese e ai cittadini l’informazione. L’opposizione, stretta attorno al Chp, sostiene categorica che la mobilitazione proseguirà, ricevendo aiuto anche dal movimento degli studenti universitari che, soprattutto a Istanbul, aveva già espresso insofferenza e dissenso quattro anni or sono, in uno degli atenei affacciati sul Bosforo denominato Boğaziçi. Allora si protestava contro un rettore imposto con nomina governativa, che umiliava la tradizione di scelta della guida accademica fra il corpo docente, e chi fra i nuovi allievi oggi parteggia per la protesta pro Imamoğlu lo fa a favore del medesimo principio di libero arbitrio. Certo, quello che per l’elettorato repubblicano vuol essere l’attacco al cielo dello strapotere erdoğaniano non ha finora visto, e rischia di non vedere né in piazza né altrove, l’intera opposizione politica. Il riferimento è al partito filo kurdo Dem che stamane ha avuto un cordiale incontro col presidente da parte dei rappresentanti Sırrı Süreyya Önder e Pervin Buldan. Non accadeva da tredici anni. Tema: una Turchia libera dal terrorismo. E’ un passo che segue il dialogo avviato nello scorso autunno dal maggiore alleato dell’Akp, Bahçeli leader del Partito Nazionalista, che promette la liberazione di Öcalan in cambio dell’azzeramento della lotta armata kurda. Il percorso è lungo e tortuoso, anche perché la frangia militarista del Pkk non è convinta della bontà dell’accordo, ma personalmente Erdoğan tiene parecchio a una  pacificazione dal valore doppio: sicurezza come obiettivo raggiunto da sbandierare nell’urna presidenziale dove, se i Dem sosterranno col voto parlamentare un ulteriore ritocco costituzionale, potrebbe partecipare per l’ennesima volta.

giovedì 3 aprile 2025

Israel Destruction and Occupation Forces

 


L’ecatombe a Gaza, con tanto di rioccupazione di terra per togliere la Terra a chi seppellisce i suoi morti, rinnovati bombardamenti israeliani sulla base siriana di Tiyas ‘giustificati’ dalla presenza turca in quella struttura aerea militare. Le agenzie internazionali informano come Ankara e Damasco stiano patteggiando una difesa aerea dallo scorso mese di dicembre, a seguito della fuga dal potere di Asad. Dallo stesso periodo Israel Defence Forces ha allungato il chilometraggio con cui occupa da decenni le alture del Golan e iniziato a martellare dal cielo la base denominata T4, quella su cui Erdoğan e al-Shaara stanno concordando d’istallare un sistema di copertura aerea. "Un sistema tipo Hisar sarà schierato al T4 per fornire difesa aerea" aveva annunciato da mesi il portavoce del premier siriano in pectore. In quell’impianto Ankara prevede di utilizzare droni di sorveglianza e armati, compresi quelli con capacità di attacco esteso; a Israele non sta bene e punta a boicottare il piano col fuoco. Il braccio di ferro non fa che aumentare la tensione, l’ennesimo attacco di stanotte – il bombardamento d’una struttura di ricerca scientifica a Barzeh, così riferisce l’agenzia siriana Sana – più uno nella periferia di Hama creano una condizione di conflitto strisciante. Tel Aviv, invece, sostiene di stare a colpire solo depositi militari. Da oltre una settimana le operazioni belliche dell’Idf sono state molteplici, non solo raid aerei. Nella provincia di Daraa l’aggressione s’è sviluppata via terra e conferma la volontà del governo israeliano di ampliare l’area d’occupazione verso il sud-est siriano. La precarietà della gestione amministrativa attuata dal gruppo ribelle Hayat Tahrir al-Shaam che prova a ‘normalizzare’ del Paese, paga ancor più lo scotto sul fronte bellico contro un avversario altamente tecnologicizzato. Per questo l’ex miliziano ora ‘statista’ al-Shaara spera in una rapida attuazione del monitoraggio dei droni forniti dalla Turchia che potrebbero dissuadere Israele dalle reiterate incursioni dal cielo. Certo, non solo la fornitura armata ma la presenza di ‘consiglieri turchi’ a favore di Damasco viene considerata da Israele una minaccia diretta alla propria nazione, che sta anche lamentandosi con l’alleato statunitense della proposta della Casa Bianca di ridimensionare o cancellare del tutto le sanzioni introdotte all’epoca dell’acquisizione turca del sistema missilistico S-400. Rinunciando alle rampe russe, da smontare e immagazzinare, Ankara verrebbe blandita con forniture made in Usa, legate però alla versione Patriot Pac-3, missili versatili ma meno rapidi dei concorrenti. Trump comunque strizza l’occhio a Erdoğan, in un rimescolamento dei pacchetti d’offerta proporrebbe anche di aprire le porte a forniture di F-35, sospesi al momento dell’idillio fra i presidenti russo e turco. Il turbinìo mercantile trumpiano è a getto continuo, con e senza dazi. Netanyahu è ridotto a spettatore, sebbene prosegua a ricevere da Oltreoceano il benestare di stragista su Gaza per l’ideuzza del resort da far seguire alla deportazione gazawi. A cui può aggiungersi l’assenso sul ‘Levante siriano’ da annettere manu militari  come accade da quasi un sessantennio per il Golan.


 

mercoledì 2 aprile 2025

Afghanistan, tanto fondamentalismo scarsa sanità

 


Senza dottori, senza personale sanitario, strutture e spesso senza cure. Accade nell’Emirato Islamico dell’Afghanistan dove la popolazione subisce i doppi effetti della presa di potere talebano dall’estate 2021 e dell’embargo internazionale al regime. Anno dopo anno i vertici del potere interno hanno limitato e poi impedito il lavoro femminile negli ospedali e nei centri sanitati che sono drasticamente diminuiti per il graduale taglio di fondi operato dai Paesi occidentali che applicano sanzioni al governo fondamentalista. Di fatto le province afghane negli ultimi quattro anni registrano un dimezzamento di quest’impianti, passati da tremila a millecinquecento.  Con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca gli aiuti statunitensi all’estero, non solo verso l’Afghanistan, sono stati bloccati e la popolazione dell’Emirato ha perso altre 206 unità sanitarie. Tali restrizioni, unite al considerevole numero di medici che aveva abbandonato il Paese già con la salita al potere dei taliban, costringe le madri a spostamenti su distanze sempre maggiori per curare e sottoporre a profilassi varie, come l’antipolio, neonati e figli minori. Viaggi resi difficoltosi non solo dalle carenze di vie e mezzi di trasporto, ma dalle imposizioni sostenute dal Gotha dei turbanti stretto attorno alla Guida Suprema Akhundzada. Suo l’obbligo della presenza del mahram (un parente maschio) durante spostamenti significativi delle donne, fattore non sempre di facile soluzione che va a discapito della finalità del movimento e blocca volutamente  il mondo  femminile in casa e nei luoghi d’origine. I rigidi princìpi della Shari’a con cui i ‘duri e puri’ del movimento talebano  negano da tempo l’occupazione femminile in uffici, scuole, centri sanitari oltre a inibire un diritto - limitato ma parzialmente fruibile coi governi sostenuti dall’occupazione Nato - crea oggettive carenze nelle attività di assistenza indispensabili alle figure più deboli: malati, bambini, anziani. Nell’ultimo studio proposto dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (l’organismo che la linea trumpiana perseguita e vuole smantellare)  proprio le donne afghane in generale, dunque non solo le anziane, risultano le più penalizzate. I dati del 2023 calcolavano che su 15 milioni di donne residenti solo 4 milioni hanno potuto ricevere assistenza. Così il genere femminile lamenta un calo dell’aspettativa di vita, costellata peraltro di malattie. Statistiche sempre del 2023 stilate dall’Organizzazione mondiale per la sanità mostrano per le donne un calo medio di due anni, da 63,2 a 61. Le carenze sanitarie si potrebbero essere abbattute sullo stesso Akhundzada, sempre schivo nell’apparire pubblicamente, ma da troppo tempo in disparte. Un’infezione al Covid 19 nel periodo più acuto della pandemia lo dava malato e si è avanzata l’ipotesi d’un suo decesso tenuto comunque celato per non destabilizzare il gruppo di comando stretto attorno a due altri duri: i ministri dell’Interno Sirajuddin Haqqani e quello della Difesa Mohammad Yaqoob. Ciascuno ha alle spalle clan potentissimi, gli Haqqani vicini alle madrase deobandi pakistane, mentre Yaqoob, figlio maggiore del defunto mullah Omar, imparentato al ceppo pashtun dei Ghilji gruppo di potere radicatissimo nelle province di Kandahar e Zabol. Al di là della storia che li fa temibili guerrieri, la dinastia Hotak dei Ghilji è di strada e di casa a Quetta, la città pakistana dove si riunisce la più importante Shura talebana. E’ lì che prese avvìo il movimento degli studenti-combattenti svezzati da Omar. Sunniti di scuola hanafita, sono fra gli islamici più dogmatici e intransigenti e, al di là delle diatribe interne con cui s’è detto che Omar non morì per infezione ma per una fronda organizzata da Mansoor, a sua volta ucciso da un drone statunitense, chi prende in mano la guida talebana assume posizioni oltranziste per tradizione. S’era ipotizzata una direzione più morbida con Abdul Baradar, detenuto per otto anni in Pakistan e liberato su richiesta statunitense proprio durante il primo mandato di Trump, ma dopo un incarico da vice primo ministro, il suo astro nel nuovo Emirato s’è offuscato. Comandano i fondamentalisti.

giovedì 27 marzo 2025

La tristezza di Pamuk

 


Nessuno può prevedere che cosa ci riserva il futuro ha scritto oggi sul Corsera Orham Pamuk, premio Nobel della letteratura innamorato della Istanbul romantica nel suo capolavoro più noto, infarcito di vicende personali e immagini della città, non ancora metropoli. Amante della propria infanzia e d’un mix di vestigia imperiali in disarmo e di quartieri poveri, poverissimi negli anni Sessanta. Gli anni dei golpe militari che travolgevano tutti, anche i kemalisti del Partito Repubblicano che coi difensori del laicismo in divisa provavano a star sottobraccio, per essere comunque travolti, come ogni partito, da chi diceva di porsi al di sopra delle parti: le Forze Armate. Proprio nell’anno in cui Pamuk nasceva, il 1952, la nazione anatolica era ammessa nella Nato. Era l’epoca dell’Alleanza Atlantica para golpista e manovrata dalla Cia che creava il sistema Stay-behind, dalle parti nostre, fra Taviani, Andreotti e Cossiga, denominata Gladio. Quella Turchia piaceva ai disegni trumaniani e al generale Eisenhover, l’impatto d’un esercito sorto dal furore dei “Giovani turchi” poteva servire per contenere la possibile contaminazione comunista sulle sponde del Mar Nero. Ma l’animo di Pamuk vola alto, è estremamente sensibile, guarda altro, guarda oltre e in uno dei passaggi delle mirabili pagine di Istanbul insegna che hüzün, che in lingua turca sta per ‘tristezza’, viene dritta da due versetti del Corano, dunque è d’origine araba. Ma ha anche un sinonimo, menzionato in altri versetti, che diventa ‘afflizione’. Fra i due: “Il sentimento di tristezza può derivare da d’un eccessivo attaccamento al mondo, ai beni, ai piaceri materiali”, “l’origine mistica dell’afflizione si dimensiona sul senso di perdita e di dolore. Un vero mistico non pensa alle questioni mondane come le ricchezze, i beni, ad affliggerlo può essere la sua incapacità di avvicinarsi ad Allah”. Accostare a questi concetti il feroce scontro fra l’uomo che ha incentrato sull’Islam il suo progetto politico e l’avversario politicamente laico ma di profondissima fede musulmana,  finito in galera per accuse di corruzione e peculato, è quantomeno straniante. Staccati entrambi da qualsivoglia misticismo islamico. 

 

L’ex sindaco İmamoğlu e il presidente Erdoğan, suo persecutore sebbene celato dietro le toghe dei magistrati, paiono ben lontani dallo spirito triste della metropoli turca e della cultura islamica che la pervade. Presi, com’è ovvio per due politici di primo piano, da ragioni amministrative e di potere, le stesse che stravolgono il volto di tante città in Europa, in Asia e nel mondo con trasformazioni legate più allo sviluppo che al progresso, e di conseguenza all’affarismo. Nei ricordi dell’Orham bambino c’erano ancora i velieri attraccati a Karaköy, ma è difficile dire se con le odierne settantatré primavere preferisce i trascorsi scorci del Bosforo all’attuale Marmaray, ponte subacqueo fra i continenti su cui s’affollano sedici milioni di cittadini. Nella gestione amministrativa della metropoli, prima coi sindaci dell’Akp, Erdoğan compreso, poi del Chp, si possono trovare intrecci e imbrogli speculativi, quelli con cui la procura ha spedito il leader repubblicano nella galera di Silivri, però a chi della città del ricordo nulla sa, appare un pretesto. E appare esserlo anche allo scrittore del sentimento che l’afferma a gran voce: “Tutto questo è inaccettabile e profondamente insopportabile, ed è il motivo che spinge un numero sempre maggiore di persone a partecipare alle recenti proteste”. Nel luogo che trasuda Storia trasformata in argentea vetrina per turisti, megalopoli per abitanti, crocevia per affaristi legali legati alla politica d’ogni colore e per i traffici illegali capaci di mimetizzarsi fra l’approccio distratto o complice di chi gestisce il potere, è in gioco l’ultima parvenza di democrazia. A questo scoglio s’aggrappano i protestatari di Saraçhane, i militanti del maggiore partito d’opposizione e i ventenni che non hanno conosciuto la Istanbul delle legnose  yalı, né i carri armati che decretavano il coprifuoco quando Kemal inseguiva il disperso amore per la bella Füsun. Chissà quanti liceali di piazza passano oggi al Museo dell’Innocenza, e se la tristezza per la libertà messa a repentaglio dal potere trova spazio per emozione e sentimento.

martedì 25 marzo 2025

L’Oscar incrementa odio

 


Non gli è servito vincere l’Oscar per il miglior documentario della scorsa stagione. Anzi. L’odio di chi si nutre di violenza e la teorizza come finalità esistenziale l’ha messo ancor più nel mirino. Così il palestinese Hamdan Ballal - che col collega e attivista Basel Adra, gli israeliani Yuval Abraham, giornalista, e Rachel Szor, sceneggiatrice  -   avevano assemblato in video le grame giornate degli abitanti di villaggi cisgiordani attorno ad Hebron è,  finito linciato a sangue. Autori i coloni del crimine e dell’illegalità istituzionalizzate dai governi di Israele, i fanatici sanguinari che assaltano, picchiano, pugnalano, sparano, ammazzano, distruggono sotto lo sguardo compiaciuto dei militari di Israel Defences Force. Ballal ha ritrovato sulla sua pelle lacerata e grondante sangue quegli squarci profondi che No other land documenta, una testimonianza fra le mille della resistenza inimmaginabile per qualsiasi famiglia al mondo. Non soddisfatti per l’assalto dei coloni al villaggio di Susiya nell’area di Masafer Yatta i soldati dell’Idf hanno portato via Ballal che, a detta d’un gruppo di attivisti statunitensi impegnati in un progetto di supporto agli abitanti del villaggio, perdeva sangue. Le ultime notizie sul suo conto lo danno arrestato. Proprio così. L’aggressione subìta diventa l’ennesima sequenza della trafila devastatrice e persecutoria rivolta dallo Stato di Israele ai nuclei di questi villaggi. Persone povere che provano a vivere di pastorizia e piccoli commerci, nel filmato incentrato sulla vita di Basel fra la sua gente il padre gestisce una pompa di carburante. A costoro vengono distrutte case e servizi igienici, demolite stalle per animali e miseri locali adibiti a scuola. L’asfissiante quotidianità, fra notti trascorse all’addiaccio dopo le ciniche devastazioni e albe che preannunciano precarietà, ha il fine d’intossicargli anche quella vita grama, sfrattarli dalla loro terra a favore di ulteriori insediamenti coloniali. Quest’anno l'agenzia Ocha delle Nazioni Unite, ha documentato in neppure novanta giorni oltre duecento attacchi dei coloni israeliani contro i palestinesi. In questi assalti si può finire paralizzati, come accade a un parente di Basel colpito da un proiettile di Tsahal, o bruciati vivi come un bambino a Duma nel 2015 nei roghi appiccati dagli oltranzisti ebrei. E’ l’altra faccia della soluzione finale che Israele, e i suoi alleati, prospettano per i palestinesi, dalla Cisgiordania a Gaza: evacuazione forzata o indotta, per far marciare nella terra di chi non ha un’ulteriore terra la propria colonia dell’occupazione e dell’odio.   

lunedì 24 marzo 2025

Arresti a mille

 


Sarebbero criminali già incarcerati per furto, droga, violenza fisica e sessuale, diversi dei fermati in queste ore a Istanbul. L’afferma una nota del ministro dell’Interno Ali Yerlikaya che tiene a puntualizzare gli arresti dopo cinque giorni di proteste e scontri attorno ai giardini di Saraçhane: sono 1.133. Il ministro infioretta l’informativa con numeri e dettagli: 123 poliziotti feriti negli incidenti che hanno visto lancio di pietre e molotov, razzi e corpo a corpo coi reparti antisommossa. Poco si sa dei manifestanti feriti che, come in ogni scontro, evitano gli ospedali per non vedersi spediti in prigione, ma ripetute testimonianze hanno aggiunto a quanto le immagini televisive mostravano - uso copioso di gas lacrimogeni, cannoni ad acqua, spray urticanti - l’esplosione dei pericolosissimi proiettili di gomma e di granate stordenti. Eppure la piazza non molla. Anche stasera mobilitazione fitta nelle strade di Fatih prossime all’edificio del Comune diventato il simbolo della resistenza del Chp, cui ha preso a offrire sostegno un crescente numero di universitari di vari atenei cittadini, decisi a mobilitarsi contro il sistema erdoğaniano strangolatore di libertà individuale e collettiva. Sono, dunque, loro l’anima candida e ideale che controbatte notizie e insinuazioni governative sulla “feccia” di strada che, come i criminali menzionati da Yerlikaya, metterebbero a soqquadro la metropoli insidiando la sicurezza nazionale. Dopo l’iniziale silenzio e l’arringa ai suoi sostenitori in un hotel Erdoğan ha tuonato a favore di telecamere, venerdì sostenendo la magistratura che ”autonomamente fa il suo mestiere”, oggi politicizzando i rilievi contro l’opposizione: "i responsabili per i nostri agenti feriti negli attacchi di questi giorni, per le nostre moschee e locali con finestre rotte, per la proprietà pubblica danneggiata sono il leader del Chp Özgür Özel e coloro che alimentano l'anarchia di strada". Frattanto İmamoğlu,  da ieri detenuto nel carcere di Silivri, ringrazia tramite i suoi legali chiunque stia contribuendo alla protesta solidale, dagli attivisti repubblicani ai senza partito: “Non c’è in ballo solo la mia libertà ma quella dell’intera Turchia”. I quindici milioni di consensi (tanti ne ha dichiarati il Chp) alla sua candidatura presentata alla primarie per le elezioni del 2028 sono diventati un plebiscito a favore d’un cittadino al di sopra di ogni sospetto, sostiene chi lo vota; l’esatto contrario della posizione del presidente che, difendendo l’operato dei giudici, afferma come nessuno sia intoccabile e al di sopra della legge. Da qui la necessità dell’inchiesta, valutata invece dall’opposizione come una manovra per impedire a İmamoğlu di proseguire un percorso politico diventato sempre più ambizioso. La piazza continua a ribollire, l’instabilità può diventare sistemica.

domenica 23 marzo 2025

İmamoğlu fra prigione e investitura

 


İmamoğlu va in galera, questo ha deciso il Tribunale di Istanbul, ma non per fiancheggiamento al terrorismo del Pkk, l’accusa più pericolosa perché l’avrebbe fatto immediatamente decadere dalla carica di  sindaco della metropoli. Restano le imputazioni per corruzione e frode,  reati penali con una ricaduta politica visto che l’imputato ha rigettato ogni accusa, definendole infondate e pure immorali, affermando di non aspettarsi nulla di buono da una magistratura pilotata. Da chi lo sanno tutti, specie le decine di migliaia (il Partito Repubblicano ha parlato di mezzo milione) di cittadini in strada solidali col sindaco e infuriati col manovratore. Lui è l’anima della Turchia islamista e tuttora presidente Erdoğan, e vista la piega presa dalla contesa ha alzato la voce difendendo magistrati contestati e poliziotti attaccati dalla piazza tinta di rosso dalle bandiere del Chp. Che poi è il vessillo turco. Una piazza lievitata in queste ore prima e dopo il pronunciamento dei giudici; strabordante oltre i giardini di Saraçhane, dov’è il Municipio reso fortino della resistenza dai sodali di İmamoğlu. E l’immane schieramento di polizia in tenuta antisommossa, che finora ha ‘idratato’ e ‘gasato’ i sostenitori-contestatori cerca di contenere anche possibili scontri con l’elettorato pro Akp che nel quartiere storico di Fatih è di casa. Se i numeri della protesta sono reali non è solo la militanza kemalista a mobilitarsi. Ci sono gli studenti, che già nei giorni passati si autoconvocavano a difesa d’ogni libertà, d’espressione e d’azione, compresse e spesso schiacciate da almeno un decennio, sebbene su bersagli diversi: la gioventù ribelle di Gezi Park, giornalisti, gülenisti, golpisti, kurdi. Un anno via l’altro il Sultano ha cementato il “suo popolo” tramite lo scontro con “attentatori” alla sicurezza della Paese, scippando il simbolo di nazione di cui proprio i kemalisti del Chp si facevano depositari. Islam nazionalista e populista è la ricetta servita fino alle ultime presidenziali vinte contro un candidato di questo partito.

 


Ma non era İmamoğlu, che a detta dei sondaggisti straccerebbe un ormai logoro Erdoğan vittima della supponenza con cui ha fatto il vuoto intorno a sé, privando lo stesso Akp di uomini utili alla conservazione del potere, e impedendo la crescita di nuove leve. Tantoché per le imponderabili presidenziali del 2028 pone fra le soluzioni possibili l’ennesimo ritocco costituzionale che gli allungherebbe il mandato.  Preoccupati dalla piega illiberale sino all’inverosimile che sta caratterizzando la vita politica interna, i turchi della generazione erdoğaniana, quelli nati sotto i suoi governi ma nei quali non si riconoscono e che non vogliono invecchiare sotto di lui, si mobilitano fuori dalle sigle di partito. In questo possono somigliare ai contestatori di Gezi Park, all’epoca nient’affatto ben voluti da tutti i gruppi del Meclisi, fatta eccezione per il Partito della Pace e Democrazia allora con la sigla Bdp, diventata Hdp e ora Dem. I kurdi legalitari che siedono in parlamento, se non vengono arrestati con l’accusa di fiancheggiamento del Pkk. Furono i loro militanti a parteggiare per i çapulcu (saccheggiatori) come Erdoğan definiva i difensori del parco Gezi, creando dissapori nello stesso Akp nel quale l’ex vice Şener si scagliò contro la linea dura voluta dall’allora premier, seguito dal presidente del Partito della Giustizia Gül. Anche quando le pallottole di gomma e i lacrimogeni mietevano vittime (a fine protesta si contarono undici morti e oltre ottomila fra feriti e intossicati) i kemalisti di professione parlamentare  speravano che il governo cadesse, ma non sporcavano le mani con le barricate. Stavolta sarà diverso? Intanto l’apparato del Chp, per rafforzare il sostegno al sindaco incarcerato, ha disposto la sua unica candidatura alle primarie indette per oggi che s’annunciano partecipatissime. Una gran quantità di istanbulioti si sta recando nei centri disposti dal Partito Repubblicano per deporre la scheda nell’urna. La resa dei conti  fra İmamoğlu ed Erdoğan è iniziata.

venerdì 21 marzo 2025

Saraçhane e Gezi Park due Istanbul lontane

 


Se i giardini Saraçhane, nello storico quartiere di Fatih, diventeranno una nuova Gezi Park, a distanza di dodici anni dalla rivolta che ha creato una frattura fra un pezzo della città-simbolo e Recep Tayyip Erdoğan suo cittadino più illustre e sindaco e premier e presidente, si vedrà. Anche quella protesta partì in sordina, incendiandosi lungo un percorso temporale di settimane e finendo nel sangue d’una lacerante repressione. Da allora iniziava ad acuirsi il divario fra un Islam politico reinventato proprio dal suo figlio di Kasimpaşa e il kemalismo che l’aveva persino soffocato. Anche allora magistrati, su imbeccata di militari e  politici, decidevano cosa si poteva dire e fare quando Erdoğan paragonò moschee e caserme, minareti e baionette, fedeli e soldati – riprendendo peraltro versi del poeta Gökalp – finì in galera, ma non per molto. Il Novecento stava per chiudere il suo ciclo e l’uomo nuovo della Turchia che, con quella condanna, avrebbe potuto abbandonare la politica ritrovò a breve tutte le opportunità, moltiplicandole per mille. Potrebbe, dunque, ben sperare l’attuale sindaco Ekrem  İmamoğlu incarcerato mercoledì con accuse più materiali d’un reato ideologico, sebbene i suoi difensori e i fratelli del partito repubblicano erede del kemalismo storico, parlino di persecuzione ideale contro un avversario reale. L’unico,  sostengono, in grado di mettere in ginocchio l’attuale presidente e il suo sistema alle elezioni del 2028. Che, però, sono lontane abbastanza per far sì che i fatti interni al Paese: la svalutazione pazzesca della lira, la girandola di ministri economici in disaccordo con l’eterodossa “cura” voluta dal presidente in persona, i ripetuti tagli dei tassi d’interesse da parte della Banca Centrale e un carovita angosciante,  risultino meno spiazzanti rispetto al ruolo internazionale giocato dalla Turchia erdoğaniana sullo scacchiere regionale e globale.

L’elezione che avrebbe dovuto scalzare Erdoğan dal potere nel maggio 2023, in fondo gli ha fatto trovare consensi più grazie al suo pragmatismo nazionale e internazionale che a seguito dell’inadeguatezza dell’alternativa, l’allora leader del Chp Kılıçdaroğlu. Ma era il programmino repubblicano a difettare sebbene ci sia chi pensa che col rampante e determinato İmamoğlu sarebbe stata un’altra storia. I suoi sostenitori che in queste ore nel recinto di Saraçhane, ma pure ad Ankara, Izmir e nell’originario distretto della Trebisonda urlano invettive su polizia, giudici e governo in carica, imprimono sui cartelli la speranza nel conducador. Lo definiscono Cesare, lo vogliono opporre al Sultano, quasi servisse un uomo forte contro l’uomo degli strappi e della forza. In questo la piazza Saraçhane dista da quella di Gezi Park non solo per collocazione urbana nella metropoli sul Bosforo. E’ l’elemento ideale che le distingue. Per il sindaco indagato c’è un sostegno di partito, magari anche studentesco, e forse milioni di istanbulioti arriveranno. A Gezi c’era la gioventù ribelle e senza partito. Anarchici e bohémien, mamme ambientaliste e inquilini di d’una Galata sempre più snaturata dall’affarismo, comunisti non ancora arrestati e i giovani turchi del Terzo Millennio molto diversi da chi sotto quel nome dette avvìo al nazionalismo razzista. Peraltro nelle enclavi cittadine dove l’islamismo non è di moda, da quelle che amoreggiano fra Karaköy e Üsküdar, l’entusiasmo per İmamoğlu non è scontato. Gli alternativi lo valutano come un’altra faccia del sistema, targato con sigla politica differente, ma non certo un innovatore in fatto di morale, diritti, visione del mondo. Lo scontro ufficiale ha ruotato attorno alle dichiarazioni del capo del Chp Özel: "İmamoğlu ama il suo Paese e la sua gente; non è un ladro o un terrorista", cui il ministro della Giustizia Tunç risponde: "Chi occupa posizioni di responsabilità deve mostrare maggiore attenzione nelle dichiarazioni". 

 

Per ora, secondo la legge vigente, la certezza è che entro quattro giorni (dunque domani) i fermati dovranno essere rilasciati o incriminati. Su İmamoğlu pesano sette imputazioni. La corruzione starebbe alla base delle tangenti richieste a mezzo dell’attività di Medya A.Ş. che così si descrive sul suo sito ufficiale “Filiale della municipalità metropolitana di Istanbul fondata nel 2011, siamo tra i pionieri del settore dell'editoria digitale con i nostri canali pubblicitari e promozionali interni ed esterni dislocati in ogni angolo della città… Siamo un'agenzia di comunicazione digitale a 360°. Raggiungiamo milioni di cittadini sulle strade, nelle piazze e sui mezzi pubblici, stabilendo una comunicazione ininterrotta con gli abitanti nelle fermate degli autobus, rastrelliere fisse, mega-luci e i nostri schermi digitali dislocati in tutta la città. In IBB TV, nelle aree di nostra proprietà, come gli schermi esterni, o nei media che utilizziamo come strumenti di trasmissione, come i social media e Modyo TV. Produciamo contenuti in diversi formati sugli investimenti cittadini dell'IMM, sulle attività culturali e artistiche, sugli sviluppi tecnologici e sulle attività sportive, e trasmettiamo in diretta le riunioni del Consiglio e le gare d'appalto dell'IMM tramite IMM TV”. Insomma un colosso, addentato dal molosso giudiziario che gli attribuisce nel percorso di assegnazione di gare d’appalto la richiesta di tangenti alle varie imprese. Il sindaco sarebbe in combutta con tutto quest’apparato. Altre accuse, ovviamente da provare, comprendono la coercizione di uomini d'affari a versare contributi finanziari illegali, il coinvolgimento in transazioni fraudolente tramite persone autorizzate a riciclare fondi ottenuti illegalmente e l'utilizzo delle cosiddette "riserve segrete di denaro contante" gestiti da intermediari per facilitare i trasferimenti e le riscossioni di denaro.

 

Un'altra imputazione riguarda la manipolazione sistematica delle offerte comunali relative agli spazi pubblicitari esterni. I procuratori sostengono che le società affiliate hanno istituito società di copertura per fingere transazioni commerciali con filiali municipali, gonfiando i valori contrattuali per giustificare guadagni illeciti sempre attraverso tangenti. E ancora: frode su vasta scala che coinvolgeva progetti municipali inventati e inesistenti destinati unicamente a nascondere l'appropriazione indebita di fondi pubblici. I magistrati affermano che i dati personali appartenenti ai residenti di Istanbul sono stati acquisiti illegalmente e sfruttati per garantire la continuità operativa della rete criminale. Almeno in questa serie di accuse ce n’è per confermare la detenzione. Ci s’aggiunge anche il presunto coinvolgimento nel favorire l'organizzazione terroristica Pkk. La procura dice che il sindaco, consapevolmente e volontariamente, ha partecipato a un "consenso urbano", una collaborazione elettorale strategica tra il Chp e il partito pro kurdo Dem, attuato nelle amministrative dello scorso anno. E poi che simpatizzanti e affiliati dell'organizzazione terroristica siano stati collocati all’interno dei municipi. Da domani gli scenari possibili per l’imputato più illustre potrebbero risultare: 1) assoluzione o rilascio in attesa del processo. İmamoğlu potrebbe riprendere le sue funzioni di sindaco senza interferenze immediate. 2) Sebbene liberato, il Ministero dell'Interno potrebbe rimuoverlo dall'incarico, citando un'indagine in corso sul terrorismo e sostituirlo con un fiduciario governativo. 2) Se arrestato per accuse di terrorismo, il Ministero dell'Interno assegnerebbe un fiduciario per sostituirlo. 3) Quest’imputazione lo farebbe decadere  anche se venisse inizialmente liberato. 4) Se fosse formalmente arrestato per aver guidato un'organizzazione criminale con accuse di corruzione, il comunale si riunirebbe per eleggere un nuovo sindaco, senza una persona nominata dal governo.