Forse per risvegliarla hanno atteso che la diplomazia mondiale, con in prima fila i leader occidentali che la orientano, avviasse l’assise annuale al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite per far brillare mine e spararsi addosso granate nel “giardino nero montuoso“ chiamato Artsakh dagli armeni, Qarabag dagli azeri, al secolo Nagorno-Karabakh. L’area assegnata all’Azerbaijan, con una maggioranza di popolazione armena autorganizzata in Repubblica autonoma e non riconosciuta quasi da nessun Paese, dove ci si fronteggia e si guerreggia ormai da trent’anni. I due conflitti, consumati nel 1992 e nel 2020 - fra gli eserciti armeno e autonomista karabako schierati su un fronte e azero organizzato sull’altro - hanno solo sommato morti, feriti, profughi senza accontentare nessuno. La diplomazia mondiale che siede all’Onu poco o nulla s’è interessata alla diatriba, lasciando che i ‘tutori’ locali, la Russia a favore degli armeni, la Turchia a sostegno degli azeri, gestissero la situazione di pace armata. Non è stato così. Soprattutto le truppe di Mosca che dovevano frapporsi ai contendenti e proporsi ‘portatori di pace’ hanno disatteso il ruolo, anche perché il fronte ucraino ha attirato le loro attenzioni, forze e munizioni. L’esempio eclatante del disinteresse russo, ma pure internazionale, si chiama corridoio di Laçin. E’ una lingua di territorio su cui si srotola una manciata di chilometri di autostrada ed era, sino al conflitto del 2020, il cordone ombelicale fra l’Armenia e l’autoproclamata Repubblica di Artsackh. Su quel passaggio dovevano vigilare i soldati russi che dal dicembre 2022 se ne sono andati. Così, senza colpo ferire, le truppe azere si sono impossessate del check-point dal quale passa tutta la merce che viaggia verso il Nagorno: alimenti, vestiario, medicine, possibili armamenti. Gli azeri sostengono di voler impedire il passaggio di quest’ultime, di fatto da nove mesi impediscono il transito d’ogni cosa tanto da ridurre alla fame la cittadinanza karabaka.
A luglio la diplomazia, stavolta europea, aveva messo di fronte i leader delle nazioni in contrasto, l’azero Aliyev e l’armeno Pashinyan, che obtorto collo trovavano una via d’uscita, consistente nel riconoscere l’integrità territoriale dell’Azerbaijan, compresa la lingua di Laçin, in cambio della riapertura del traffico stradale. Invece le autorità karabake hanno smentito i propri mentori, dicendo no a qualsiasi trattativa. A Erevan ci sono fazioni che contestano la gestione dell’attuale premier (ieri si sono registrati scontri fra manifestanti e polizia) e c’è anche chi propone la ricostituzione di quei gruppi paramilitari, già attivi tre anni or sono. Insomma il timore del precipitare della drammatica situazione in una crisi addirittura armata esisteva da settimane. Le deflagrazioni dell’inizio settimana con quattro poliziotti azeri uccisi e il bombardamento di ieri, che ha fatto ventisette vittime fra i civili karabaki, sembrano la materializzazione della crisi. Dopo le esplosioni si risvegliano tutti: la Russia (udite) che chiede un repentino cessate il fuoco, Stati Uniti e Francia anch’esse accusatrici di Baku dell’ennesima destabilizzazione dell’area, il pacioso segretario generale Onu Guterres che invita a una descalation e al più rigoroso rispetto del cessate il fuoco 2020 e dei princìpi del diritto umanitario internazionale (sic). Ordinaria amministrazione della burocrazia diplomatica, perché del territorio in questione non interessa né al mondo, né ai suoi rappresentanti. Le parti in causa fanno della regione una ragione di bandiera, ma sopra e sotto il ‘giardino montuoso’ non ci sono tesori, gli abitanti sono poco più di centomila e sfollano sempre più. La loro sfortuna è quella di non rientrare fra le comunità per le quali la diplomazia che conta trova soluzioni, come accadde con l’invenzione del Kosovo-nazione, in quel caso funzionale agli interessi Nato nell’area balcanica.
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