A cercarlo sui libri di storia Aḥmad Orābī è un uomo dell’Ottocento con tanto di fez ottomano, noto per aver guidato una rivolta contro gli occupanti britannici e il viceré, descritta come al-Thawra al-ʿArabiyya, la Rivoluzione araba, che dopo fasi alterne venne soffocata nel 1882 dal Regno Unito creatore d’un proprio protettorato sul Paese arabo fino al 1954. Ma chi finisce in galera in queste ore, in cui le telecamere di mezzo mondo sono puntate sulla conferenza sul clima Cop27 in svolgimento a Sharm el-Sheikh, è l’ennesimo attivista, omonimo del patriota ottocentesco. L’attuale Aḥmed Orābī è noto fra i connazionali oppositori dei militari fin da quando si muoveva fra le barricate di via Mohamed Mahmoud. Un episodio della repressione post Mubarak (correva il novembre 2011 e il governo era nella mani del maresciallo Tantawi) rimasto celebre per la violenza con cui reparti antisommossa e agenti di borghese si scagliarono sul presidio di piazza Tahrir. Nelle successive ore di battaglia di strada l’attuale arrestato perse un occhio. Altri suoi compagni di rivolta persero la vita. L’arresto odierno non è l’unico, anche il giornalista egiziano Mustafa Musa è stato bloccato dalla polizia nella città di Alessandria. Sui social l’avvocato Mohamed Ramadan ricorda che il cronista e scrittore “è portatore di cinque by-pass, lavora nel settore della comunicazione, non è attivista né tantomeno terrorista”. Tutto ciò mentre la protesta dell’altro noto oppositore Alaa Adb el-Fattah, che dopo oltre duecento giorni di sciopero della fame da ieri ha intrapreso la più rischiosa astensione dai liquidi, sia vagamente menzionata da una parte della stampa mondiale presente al meeting. Sono principalmente gli addetti ai lavori a tenere in ombra questa protesta che, pur non attinente alla questione climatica dibattuta nell’assise, è un elemento vitale per i sessantamila prigionieri del presidente Sisi.
Questi con la creazione del sedicente ‘Comitato di Amnistia’ sta liberando detenuti (un migliaio sono stati rilasciati), senza però toccare la normativa con cui le Corti egiziane possono prolungare all’infinito processi nei quali gli imputati non riescono a difendersi perché, come accade a Patrick Zaki, le udienze vengono continuamente rinviate. In queste ore in cui anche la nuova premier italiana Giorgia Meloni è giunta nella località egiziana per partecipare alla conferenza, è caduto nel vuoto l’appello lanciatole, in qualità di Capo dell’esecutivo, dai genitori di Giulio Regeni. Paola e Claudio chiedevano alla premier di non recarsi in Egitto, di non stringere la mano d’un presidente che da anni ostacola l’indagine internazionale e nazionale, e conseguentemente il conseguimento d’una giustizia, sul truce rapimento, sulle sanguinarie torture e sul barbaro assassinio del proprio figlio. Un cittadino italiano impegnato come ricercatore socio-politico contro cui gli agenti dell’Intelligence cairota hanno commesso un crimine diventato una questione di Stato. Giorgia Meloni ha ignorato la richiesta della famiglia Regeni, ha cercato accanto a Sisi una personale vetrina, aprendo a un futuro incontro bilaterale. Fra le questioni che legano da tempo le due nazioni c'è un capitolo caro al generale: la fornitura di armi. Peraltro realizzata negli anni scorsi da Esecutivi italiani di vario colore, e che ora potrebbe contare anche dell’esperienza accumulata in qualità di consulente al mercato delle armi dal nostro nuovo ministro della Difesa Guido Crosetto. A sostenere il rischioso gesto di Alaa, accanto a una schiera di attivisti sparsi in vari Paesi, la madre del detenuto che all’ingresso della prigione di Wadi el-Natrun, attende notizie. Una protesta che può trasformarsi in tragedia se le locali autorità decidessero di non intervenire. Eppure fra i delegati di Sharm, l’Egitto della galera eterna sembra non esistere.
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