Perdere la guida del governo, com’è accaduto nei mesi scorsi a Imran Khan, è inusuale in Pakistan. In verità lo è anche concludere il quinquennio di mandato, visto che nei settantacinque anni di storia interna leader e partiti politici hanno conosciuto colpi di mano militari (con Zia-ul Haq e Musharraf), attentati e assassini (di cui fu vittima Benazir Bhutto), condanne per corruzione (Nawaz Sharif), ma non sono incappati in tradimenti in corso d’opera che ora vedono l’ex premier Khan gridare al complotto. Chi l’ha disarcionato, nell’aprile scorso, è un manipolo di alleati che ne sosteneva l’esecutivo. Al voto di sfiducia - non proprio un fulmine a ciel sereno, perché anche certi deputati del suo schieramento, Pakistan Tehreek-e Insaf, storcevano il naso al barcamenarsi social-politico-teologico del premier - lui aveva risposto puntando i piedi. Chiedeva al presidente Alvi di sciogliere il Parlamento, tempo due settimane subiva il definitivo tracollo: la Corte Suprema pakistana dichiarava quella mossa anticostituzionale. Da quel momento le fazioni pro e contro Khan hanno avviato una contrapposizione che polarizza il clima interno molto più di quanto hanno fatto per anni i maggiori partiti (Partito del popolo pakistano e Lega Musulmana-N), e quanto sul fronte armato realizzano esercito e gruppi del fondamentalismo jihadista. Khan, un vip del panorama cronachistico e mondano per aver guidato la nazionale dalla mezzaluna verde al successo in Coppa del Mondo di cricket trent’anni fa, nella seconda metà dei Novanta scelse lo scenario politico. Il suo organismo, denominato Movimento per la Giustizia, non impensieriva nessuno, né i citati grandi partiti incardinati sui clan familiari, né la lobby militare che osserva, favorisce e ‘corregge’ le mosse di quest’ultimi. Nel 2013 l’exploit: Khan entra in Parlamento circondato da 34 deputati. E nella vincente campagna elettorale del 2018 lancia: sostegno ai valori islamici, come la Lega Musulmana-N, liberismo come PPP e Lega stessa, ma parla d’incremento dello stato sociale, di lotta all’ossessiva corruzione e all’invadente burocrazia, e pure di revisione del sistema poliziesco e dell’onnipresente ombra militare. Una novità, quasi una scheggia impazzita, catalogata dai politologi come dirompente populismo in una nazione infiammata da un populismo marchiato jihad, dentro e oltre i confini.
Confini, peraltro, porosissimi nella lunga fascia occidentale segnata, centoventi anni prima e nella metà di secolo precedente la nascita del Pakistan, dalla ‘linea Durand’ che inventava uno Stato afghano dividendo il Pashtunistan, la terra dei pashun, patria dei taliban che non riconoscono monarchie, repubbliche, parlamenti e sanciscono proprie leggi religiose (dell’Islam sunnita) al più relazionate al pashtunwali. Questo passato che non passa e segna la presenza talebana in un’area definita dell’Af-Pak, è l’entità con cui la politica a cavallo di un limes che unisce più che limitare deve fare i conti da decenni. Khan premier ci si è tuffato, vociando a favore dell’Islam fra seguaci fedelissimi; avvicinando le ragioni dei rissosi Tehreek-i Labbaik e del loro capopopolo da lui scarcerato; incontrando i vertici dei temibili e terroristici Tehreek-i Taliban senza comunque stipulare alcun accordo con loro. Passi di realismo politico su cui s’è incrinata l’alleanza che lo sosteneva, sebbene chi lo criticava dall’opposizione, come l’odierno premier Sharif, stia percorrendo la stessa via. E allora qualche verità ci dev’essere nei gridati e partecipati incontri in cui l’ex campione arringa la folla, sebbene per questi raduni sia accusato di terrorismo per aver puntato il dito sugli intoccabili: poliziotti diventati torturatori e magistrati compiacenti. Non è chiaro se ciò che definisce un complotto americano per bloccarlo sia vero, però Khan è il politico pakistano meno allineato all’alleato statunitense che continua a vigilare sulle centosessantacinque testate atomiche collocate su quel terreno. E’ il premier che si recava a Mosca alla vigilia dell’attacco all’Ucraina (lo sapeva? forse no) ma era lì a stringere la mano a Putin e patteggiare forniture di metano, visto che l’agognato gasdotto Tapi resta fermo. E poi a Washington non piace che nei quattro-anni-quattro di governo populista del PTI il grande porto della più abitata metropoli pakistana sia diventato un’enclave economica cinese insinuata nel medioriente arabico.
Allora nell’incontro-scontro fra America e Cina, avvampato più delle estati del cambiamento climatico, scrollarsi di dosso un soggetto che punta a fare il condottiero fuori dai tavoli dove si scrivono le sorti del mondo alleato e di quello dominato, ci può stare. Per non essere un contaballe Khan dovrà mostrare prove, ma se non finisce arrostito da una condanna per ‘terrorismo’ ammessa dalle leggi interne per chiunque infanghi le forze dell’ordine e quelle della giustizia, tenterà nuovamente la partita nell’urna. Intanto chi l’ha rimpiazzato deve predisporre tamponi più che per la pandemia che ha incrinato il Pil - le vite umane non sono state granché conteggiate - per i buchi economici, i mancati affari, la disoccupazione dilagante, l’inflazione arrembante salita al 25%, i disastri che non mancano mai come le recenti alluvioni. E a questo, pur ipercriticato, Khan sembrava orientato svariando sul mercato asiatico, mentre Sharif ripropone la ricetta liberista ‘politicamente corretta’ che guarda unicamente a Occidente. Biasimato anche il sogno di grandezza regionale, non tanto nell’improbabile rivalità con l’elefantiaca India, bensì nell’offrire sponda e interlocuzione ai nuovi padroni d’oltrecortina: i mullah post Omar. Certo, quando si guarda in Afghanistan i pensieri sono raramente pacifici perché quel mondo non è pacificato da chi ci entra più che da chi ci vive oppure è costretto a farlo. Il secondo Emirato ha tratti guerreschi, nonostante la tanta diplomazia profusa da Baradar che s’è speso a Doha e poi a Oslo, prima per pavimentare l’uscita dell’US Army dal pantano generato, quindi per rimediare alla vendetta di Biden che vuole affamare la gente dell’Hindu Kush. E’ il clan Haqqani a dire l’ultima parola su tante cose: così ragazze senza scuola, donne in casa, polizia religiosa per via. E questo gruppo nella ribollente galassia del Pashtunistan diviso che a un certo punto si chiama Pakistan, è un tutt’uno coi fratelli fondamentalisti, taluni fedeli al deobandismo, che sono più radicali di loro: Lashkar-e-Tayyiba, Jamat-ul Da’awa, Jaish-e Muhammad, sigle che esistono da anni o che mutano, ma continuano a trasudare sangue, perché finora non guardano oltre gli attentati che seminano morte e panico diffuso. Vogliono distruggere lo Stato pakistano, loro, senza sentire altra ragione.
Sono organizzati per ceppo tribale, con manipoli formati da parenti per evitare infiltrazioni e tradimenti, risultano difficili da estirpare anche con l’intervento del militarismo più ferreo. Nel 2014 nel Waziristan subirono l’operazione Zarb-e azb, cioè ‘colpo acuto e tagliente’, il cui motto era: “cerca, distruggi, ripulisci, mantieni” il vademecum dei trentamila soldati pakistani impiegati contro i gruppi fondamentalisti locali supportati anche da Qaeda. I miliziani combatterono, molti rimasero sul terreno, i superstiti ripiegarono a ovest oltre il confine che non c’è, ma dove i tank del generale Raheel Sharif non gli mordevano le terga. Furono sfollate 80.000 famiglie, circa un milione di persone. Il territorio del nord Waziristan pareva normalizzato, invece lì e nelle aree tribali (Fata) tutto è tornato come prima; dunque taliban e fratelli fondamentalisti controllano ogni pietra, perché per la legge vigente la polizia non può entrare nelle aree tribali. Contraddizioni d’un sistema complesso e immutato, anche perché la politica che non veste la shalwar kameez ma il tight come i fratelli Shafiz, non disdegna di finanziare le madrase del deobandismo, dove si formano gli ulema del fondamentalismo politico-religioso e gli stessi combattenti anti Stato. Scrutando questo mondo si comprende come il gioco delle parti, che poi è un doppio e triplo giochismo ipocrita, conduce le danze su uno scenario rimasto immutabile nell’essenza machista, patriarcale e capitalista, una trinità radicata anche nella Umma islamica. E’ un po’ tutto il ceto ufficiale pakistano, che mira alle Istituzioni e al potere nazionale, la conseguenza di quel che appare agli occhi d’una popolazione cresciuta a dismisura e sempre più numerosa nonostante i costanti flussi migratori all’estero. Sulle spaccature degli ultimi mesi sicuramente infileranno naso e mani i militari, per un periodo bonari con la novità rappresentata da Khan, e l’ancor più intricata e viscida Intelligence. E’ la forza di cui la nazione gode, ma sono quei “poteri forti” pericolosi per gli spiragli di democrazia, richiamati da tutti ma non si sa quanto amati.
Il secondo Paese musulmano al mondo per numero d’abitanti è oggi il maggior contenitore di profughi d’etnìa pashtun (1.3 milioni) che fuggono da quei pashtun che non vorrebbero: gli studenti coranici. E’ ciò che accade in un divenire dove l’Occidente ha viziato l’aria, imponendo il decrepito modello dei governi-fantoccio, mentre l’Emirato promette quel che non vuol mantenere nei costumi e nel quotidiano, davanti a un’economia semplicemente inesistente perché chi “aiutava” ha insinuato l’idea dell’assistenza che produce l’effetto rimbalzo dell’inerzia e sudditanza eterne. Quanto si muove d’intorno a Kabul e ai distretti chiamati tuttora Afghanistan sono interessi di entità geopolitiche minori, ma meno afflitte. Negli oltre 1.300 km di confine con lo Stato tajiko i sei punti di attraversamento fra le due nazioni sono da un anno in mano talebana e chi vuole espatriare deve ricevere l’assenso loro e di chi sta al di là. Su questo limite i turbanti dell’Emirato sono coadiuvati dai combattenti della Jamaat Ansarullah, l’ala tajika del Movimento Islamico dell’Uzbekistan a Dushambe bollata come terrorista. Così il locale presidente Rahmon, adducendo ragioni di sicurezza, negli ultimi mesi ha mobilitato truppe verso una frontiera diventata nient’affatto tranquilla. Da parte sua l’Uzbekistan è concentrato sulla questione degli impianti di cui l’Afghanistan è privato da decenni, con l’aggravio dei venti anni d’occupazione della Nato che dei 2000 miliardi di dollari lì convogliati ha fatto scempio senza creare alcuna infrastruttura. Tutt’oggi il 60% delle forniture elettriche presenti sul territorio afghano provengono dall’Uzbekistan, sebbene i mullah non stiano pagando le forniture, sostenendo di non poterlo fare. Comunque, nonostante i black-out, la corrente corre. Fra i confinanti settentrionali a tendere una mano alla pochezza economica afghana c’è pure il Turkmenistan, che durante il primo Emirato s’era posto in posizione neutrale davanti a Omar. Ora da Ashgabat dicono che i bistrattati vicini necessitano di quell’assistenza che l’Occidente nega, però solo un’economia normalizzata può portare sicurezza e stabilità. Volendo far seguire alle parole fatti sempre aleggia il progetto del gasdotto Tapi, basato appunto sul business energetico. Se ne parla da più d’un decennio, le condotte sono già posate in territorio turkmeno, parzialmente altrove, nulla nel lungamente belligerante e travagliato Afghanistan. I taliban, accettando i lavori in loco, avevano promesso 30.000 unità per controllare i cantieri nelle provincie attraversate dalle condutture. Ma l’incapacità di garantire la sicurezza anche in pieno centro di Kabul ha bloccato nuovamente tutto, come ai tempi di Ghani e degli americani. Quella pipeline fa gola all’esplosivo dell’Isis Khorasan e chi finanzia non vuol gettare denaro al vento. In attesa di chissà quale vigilanza, il Tapi resta fermo. Nel loro pragmatismo spiccio i coranici hanno patteggiato con Ashgabat un migliaio di tonnellate di metano per tirare avanti nei prossimi mesi. Poi si vedrà. Un fatalismo di cui è impregnata la politica di questa fase, da Kabul a Islamabad.
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