La nazione abbraccia tutti, anche coloro con opinioni talmente diverse dal governo che fino a ieri venivano incarcerati preventivamente, affinché non cadessero nella tentazione “terroristica”. Così recita l’attuale dottrina-Sisi esaminata dal Pomed (Project On Middle East Democratic) che ne discute con alcuni avvocati dei diritti. La realtà è comunque variegata e per comprendere le mosse del presidente-padrone vengono individuati due filoni: motivazioni interne, questioni globali. Dopo anni di politiche economiche inefficaci, Sisi prova a coinvolgere altre entità politiche per farsi suggerire soluzioni. Lo spettro di bassi redditi per milioni di lavoratori è già realtà e si vorrebbe evitare che lo scontento tracimasse nell’inarrestabile dissenso prodotto dalla crescente povertà. Peraltro il presunto dialogo serve ai rapporti internazionali del presidente che si trascina il fantasma di una repressione rivolta a tutti, anche a semplici cittadini. Di tale decennio si conoscono sparizioni di persone, uccisioni, carcerazioni protratte nel tempo, torture reiterate che ne hanno oscurato l’immagine, non gli affari. Affari però che, secondo una consolidata tradizione, rendono solo alla sua cerchia familiare e ai vertici delle Forze Armate, non alle casse dello Stato. Rilanciare la sua figura all’estero per convincere un maggior numero di finanziatori e donatori è diventata l’ossessione del satrapo, con l’occhio prevalentemente rivolto a Stati Uniti e Fondo Monetario Internazionale, i due pilastri del sostegno passato e presente dell’Egitto. Il prossimo novembre il Paese ospiterà a Sharm El-Sheikh la conferenza sul clima denominata Cop27 e Sisi si sta spendendo personalmente per avere i maggiori leader mondiali nell’assise, guidata da Joe Biden. Per come va la geopolitica attuale affidare al capo della Casa Bianca la direzione dei lavori risulta limitante, un bel pezzo del blocco asiatico, prossimo più a Pechino che a Washington, non gradirà. Ma tant’è, Sisi tira dritto. Il suo intento è cancellare, o in ogni caso sbiadire, l’immagine di dittatore che oppositori interni e organismi internazionali di diritto gli hanno confezionato.
La vicenda del dialogo nazionale va avanti dalla scorsa primavera. La presenza fra i membri della struttura organizzatrice del capo dell’Intelligence, il generale Abbas Kamel, può avere una duplice lettura: proseguire da vicino un controllo assillante su ogni genere d’iniziativa, ma anche mostrare un volto diverso, addirittura da parte dei mukhabarat, sul futuro interno. Coinvolti esponenti del Sindacato dei giornalisti (Diaa Rashwan) e del Consiglio Supremo della Regolazione dei Media (Mahmoud Fawzy) che sono due ‘tecnici’ di regime, fattore che già di per sé evidenzia il tratto formale dell’iniziativa. Però nell’Ufficio dei fiduciari compaiono anche avvocati dei diritti che dovranno seguire un asse di confronto politico, sociale, economico. A luglio s’è consumata la chiusura verso i Fratelli Musulmani, la cui presenza era richiesta da alcuni partecipanti. La motivazione è giunta dalla bocca di Rashwan: chi non riconosce la Costituzione del 2014, si autoesclude da sé perché quella Carta è la legge della nazione. Puntualizzazione fra le righe: la citata costituzione venne emendata nel 2018 per permettere a Sisi di conservare la presidenza fino al 2032, anziché terminare il secondo mandato nel 2022. Ma nessuno l’ha ricordato. Disponibile al disegno ‘riconciliatorio’ il Movimento Civile Democratico, che riunisce alcuni gruppi dell’opposizione. Accanto a soggetti funzionali a tutti i balletti della lobby militare, come il “socialista” Sabahi, l’apertura è giunta da alcuni dissidenti esteri che hanno rilasciato interviste in tivù e in qualche caso sono tornati in patria. Il ricercatore Amr Hamzawy, direttore del Middle East Program at the Carnegie Endowment for International Peace, rientrato al Cairo da Washington, dimostra certamente fegato. Invece parecchi attivisti presenti nel Paese, in condizione di clandestinità o inerti per timore della repressione, non si fidano. Riportano appunto la propria esperienza attuale, per non parlare di nomi noti: Hala Fahmy, Abdel Aboul-Fotouh, Abdel Fattah, Ahmed Douma tuttora sottoposti a una detenzione che durerà. Una lista che s’allunga a quattromila prigionieri politici privati non solo di dialogo, ma di qualsivoglia possibilità di liberazione.
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