La vicenda dei 9.5 miliardi di dollari dello Stato afghano, bloccati da un anno per volere del presidente statunitense Biden come punizione per l’assenza di diritti civili e di genere frutto dell’operato talebano, sta avendo un’evoluzione. 3.5 miliardi di dollari erano stati sequestrati nei mesi scorsi direttamente per volere della Casa Bianca che si preoccupava di offrirli a “beneficio della popolazione afghana”. Ma a propria discrezione. Ora quel denaro è stato sbloccato e convogliato su un fondo fiduciario ospitato in Svizzera presso una sedicente ‘banca d’insediamento internazionale’ che provvede esclusivamente alle procedure di servizio. Dunque non entra nel merito degli orientamenti politici e dell’uso dei dollari. Il fondo viene sorvegliato da un apposito ufficio con la presenza di un rappresentante del governo statunitense, uno del governo svizzero (sic), il capo della Banca centrale afghana nonché ex ministro delle Finanze del governo Ghani, un accademico statunitense, rimasto nel consiglio della Banca centrale dell’Afghanistan. Secondo la valutazione di esperti di economia e finanza la mossa difficilmente potrà risolvere i problemi di crisi alimentare che riguarda oltre 30 milioni di abitanti del Paese. Ci sono poi altri 3.5 miliardi di dollari impugnati in giudizio contro l’Emirato come una sorta di risarcimento contro l’attentato dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle, che com’è noto non è frutto di alcun piano progettuale né esecutivo dei turbanti di Kabul, Kandahar e neppure di Quetta. Comunque una Corte statunitense dovrebbe decidere lo sblocco di quella cifra, che potrebbe essere depositata su un ulteriore fondo. Infine due miliardi e passa di dollari di pertinenza afghana giacciono in banche europee e degli Emirati Arabi. Quali ovviamente è un segreto, non solo bancario. Chi deciderà di direzionarli alla popolazione o alla Banca centrale afghana oppure (è difficile che accada, ma non tralasciamo l’ipotesi) al governo degli studenti coranici non è dato sapere. Da parte sua il governo talebano è impegnato a sviluppare nuove entrate che possano sostituire quel 75% di capitali in precedenza provenienti dalle amministrazioni americane e da Paesi donatori.
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