martedì 8 marzo 2022

Guerre e globalismo armato

Hai voglia a dire pace e diplomazia. Se il mondo bipolare della Guerra Fredda ha avuto il suo stop il 9 novembre 1989 con la caduta del Muro di Berlino, e ancor più con la successiva dissoluzione dell’Unione Sovietica, i giganti della globalizzazione armata hanno proseguito la corsa agli armamenti, nucleari e non, fomentando e inventando conflitti, incrementando il mercato delle armi da vendere a Paesi alleati con la presunzione d’una generalizzata “sicurezza”. Sicurezza di chi? Non certo delle popolazioni che si trovano a subìre decisioni prese sulle proprie teste da un ceto politico in tanti casi eletto, ma eletto per fare guerre? Difficile trovare fra i milioni di profughi che dall’inizio del Millennio vagano per il mondo, fuggendo dalle decine degli scenari di guerra avviati e tenuti aperti anche per anni o decenni, dei sostenitori della guerra. Magari possono essere stati elettori di quei Capi di Stato responsabili dei conflitti, però la fuga dai luoghi natii è già sconfessione dei propri leader, dei loro alleati vissuti come nemici di ritorno, accanto ai nemici contro cui si combatte. Guerra o pace che sia, gli affaristi delle armi proseguono un proselitismo vantaggiosissimo col benestare di partiti e parlamenti - gli stessi indignati per la follìa d’un presidente, d’un regime, d’una potenza mondiale o regionale - che decidono di perpetuare il mestiere delle armi e il lucroso suo mercato. 

 

Secondo un recente rapporto Sipri (Stockholm International Peace Reserch Institute) gli Stati Uniti producono il 54% del materiale bellico circolante nel mondo. La Cina avanza e s’attesta al 13%, seguono Gran Bretagna 7.1% e Russia 5%, poco sotto la Francia 4.7%, staccata la Germania 1.7%. Ma è recente il richiamo del Bundestag all’acquisto di armi: ben cento miliardi per rimpolpare arsenali contenuti per oltre un settantennio quale  espiazione dalla carneficina innescata dal Terzo Reich. L’Italia sta nel restante 15.3% globale, dominato da Giappone e Israele, ma non nasconde le eccellenze delle sue aziende (Leonardo, Mbda, Beretta) che contribuiscono a offrire “lavoro” e sollevano il Pil nazionale. Nel chi vende a chi e per cosa può brillare l’altra faccia dei giganti bellici statunitensi (Lockheed Martin, quella dei famigerati F35, Boeing che costruisce gli elicotteri da combattimento Apache in azione dal Vietnam all’Afghanistan, Northrop Grummann coi suoi sistemi di rilevazione chimica, biologica, radiologica, nucleare ed esplosivi). E’ l’area delle industrie russe e del loro rapporto privilegiato con partner geopolitici che non da oggi, e oltre Putin, alimenta questo mercato. Va da aziende come Kalashnikov Koncern fondata ai tempi dello zar Alessandro I, veterana nei fucili d’assalto e di precisione come il Mosin-Nagant, alla staliniana Uralvagonzavod (carri armati del tipo T-72 e T-90, carri cisterna, veicoli militari). 

 

Le sofisticate aziende aeronautiche e aerospaziali Obʺedinennaâ aviastroítelʹnaâ korporáciâ (MiG, Tupolev, Sukhoi) e la più recente Rostec, fondata nel 2007 questa sì da Putin, costruttrice di elicotteri da combattimento e rifornimento.  Il gioiello degli ultimi tempi dell'industria moscovita MKB Fakel, sorta nel 1953 con lo scopo di creare missili terra-aria per contrastare eventuali attacchi dai cieli dell'Alleanza Atlantica, è il missile antiaereo S-400. Arma  che ha spopolato nelle commesse cinesi e fra gli alleati bielorussi, ma pure fra gli amici di Washington (Arabia Saudita) e membri Nato come la Turchia con scorno del Pentagono. Oppure fra chi si pone a metà strada: l'India di Modi. E nei conti in tasca al despota russo e ai suoi amici oligarchi si conteggiano i recenti acquisti armati a suon di miliardi di dollari: 6.5 è l'investimento dell'India (Mig, elicotteri da combattimento oltre ai carri T-90), 5 della Cina, ma ci sono anche le meno solventi Algeria ed Egitto rispettivamente con 4.2 e 3.3 miliardi. Il disastrato Iraq spende oltre un miliardo di dollari in rifornimenti bellici russi, più del doppio dell'Iran. E poi Viet-nam, Kazakistan, Siria, Angola. I clienti non mancano in giro per il mondo sia fra chi gli armamenti li usa, sia per chi li ammassa per deterrenza o «sicurezza» che spesso significa repressione delle tensioni interne. Gli indefessi pacifisti nostrani ricordano come col costo d'un F-35 (130 milioni di euro) si potrebbero costruire 387 asili-nido o venti treni per pendolari. E se proprio qualcosa deve volare s'acquisterebbero cinque Canadair, che invece quando la terra brucia non per le bombe, lo Stato affitta da aziende private. Da 8 a 15.000 euro l'ora, secondo l'emergenza.  

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