sabato 25 settembre 2021

Taliban: risse, egemonia, realismo politico

Fra i taliban le divisioni esistono, lo si sapeva da tempo. Al di là delle presunte sparatorie di Palazzo, delle voci del ferimento del mullah Baradar poi riapparso in pubblico con l’alibi d’un viaggio a motivazione della sua temporanea assenza, i combattenti intransigenti sostengono di avere un debito col Paese, la sua gente e la loro stessa organizzazione per i venti anni di guerriglia sostenuti. E vogliono esser ripagati. Taluni studiosi della galassia coranica confermano l’esistenza d’una profonda spaccatura che si sviluppa fra i miliziani e prosegue sul territorio, compresi i luoghi d’origine e le famiglie di provenienza dei guerriglieri. Ex esponenti di quella che fu l’Army National Forces lamentano azioni, coordinate e  singole, di studenti coranici armati che sequestrano loro auto o abitazioni. Tutto ciò nonostante gli annunci cantilenanti della prim’ora: non ci saranno soprusi verso chi vestiva la divisa nel precedente governo. Proprio Zabihullah Mujahid - volto ufficiale talebano nella famosa conferenza stampa del 17 agosto scorso - aveva enfatizzato le differenze dalla corrotta conduzione del collaborazionista Ghani. Ma al di là della frenesia dei giovani combattenti, contenuti nella possibile vendetta cruenta contro chi gli sparava addosso se non fino a un mese prima perlomeno fino a un anno fa, viste “le buone maniere di facciata” con cui l’Esecutivo dei turbanti non vuole turbare il mondo su un territorio tornato all’Emirato, i combattenti chiedono almeno di farsi un ‘sacrosanto bottino’. 

 

Quello copioso l’hanno messo al sicuro Ghani e i suoi accoliti, sia i consumati signoroni della guerra amici scappati via (Dostum), sia i nemici rimasti in loco (Hekmatyar). Però il talib sa che pure l’ex ufficialetto ha il suo piccolo tesoro. Fatto di gabelle che richiedeva in taluni check-point. Il miliziano lo sa perché lui stesso l’ha preteso, e ricevuto, nei posti di blocco creati nelle aree controllate. E’ il male comune d’un Paese che non cambia perché dipendente dall’assistenza interessata, un tempo dall’Occidente, in futuro da chissà chi altro. Gli Stati Uniti ritirandosi hanno congelato nove miliardi di dollari di fondi internazionali necessari all’immediata sopravvivenza economica della nazione, e nell’aria viziata dalle citate tare il vizio soggettivo continua a rimanere radicato. A spargere sale sulle spaccature politiche interne sono i nomi noti del radicalismo: mullah Yaqoob, il figlio di Omar, già comandante di punta delle offensive di maggio ora ministro della Difesa del secondo Emirato. E ovviamente Sirajuddin Haqqani. Seppure quest’ultimo abbia obiettivi più ambiziosi che taglieggiare gli ex nemici. I suoi odierni avversari sono turbanti come lui: appunto Baradar e il ministro degli Esteri Mohammad Stanikzai. Questi, originario della provincia di Logar, quando l’Armata Rossa occupava l’Afghanistan faceva l’apprendistato nell’Accademia militare indiana, quindi partecipò alla Jihad antisovietica. E’ un uomo d’arme, ma non ha mai ecceduto nel militarismo, né nel fondamentalismo confessionale. La coppia rappresenta il pilastro diplomatico dell’attuale gruppo di potere, che diversi media hanno tacciato di moderatismo. 

 

Accanto alle etichette distribuite o guadagnate, parlano intenti e fatti. Più d’uno dei leader dell’area di Kandahar non ha gradito la visita del potentato dell’Isi pakistano Hameed che ha “mediato” a suo modo, contenendo le pretese degli Haqqani e al tempo stesso offrendo al clan una sponda esplicita, superiore a quella lanciata per anni sottotraccia nei territori delle Fata, dove tanta guerriglia talebana ripara ed è nutrita. Anche un altro leader coranico, Mohammad Mobeen, ritiene che il miglior futuro d’un governo tuttora provvisorio, potrà essere dettato da una formula maggiormente inclusiva. E se qualche esemplare della vecchia guardia dell’Afghanistan messo in soffitta – Karzai, Abdullah – risulta  impresentabile e confligge col rigore anti-Occidentale, altri totem d’un triste passato devono in qualche modo rientrare in gioco. Uno potrebbe essere Hekmatyar, fondamentalista quanto basta così da accontentare i più intransigenti della famiglia talebana, e soggetto già in diretto contatto col potere iraniano. Questa sponda sostiene l’idea di ampliare il governo con una rappresentanza etnica non solo di hazara a maggioranza sciita, ma pure di uzbeki e tajiki. In tal modo l’ingerenza pakistana che si vorrebbe far uscire dalla porta rientrerebbe da due finestre: la prima aperta verso i cavalli di Troia di Islamabad, con gli uomini dell’Isi in prima fila, la seconda coi jolly di Teheran. Sebbene l’intera rissosa e incontentabile famiglia talebana i conti dovrà farli con le schegge più incontrollabili che flirtano con lo Stato Islamico del Khorasan e gli offrono uomini, fanatica fede, confronto e conforto.

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