Almeno una parte della
pesante zavorra
che negli ultimi decenni condiziona la vita della gente afghana deriva dai
comportamenti d’un vicino invadente al limite dell’invasione. Quelle
ottocentesche dell’impero britannico e le recenti sovietica e statunitense
erano palesi, con tanto di eserciti e sangue versato. Aggressioni peraltro
respinte e rispedite al mittente con l’immancabile tributo di violenza e morte.
L’invasione pakistana è subdola, basata su aiuti presunti e concessione di
campi profughi oltreconfine, e via vai di guerriglieri e agenti dei Servizi, grande
specialità del gigante musulmano. Coi suoi 220 milioni di abitanti la nazione
cresce in proporzione più delle più prolifiche stirpi africane, il 37% sono
bambini al di sotto dei 15 anni d’età. E’ dopo l’Indonesia il Paese islamico
maggiormente popolato. Questa fede raccoglie il 97% degli abitanti,
concentrati, eccezion fatta per le megalopoli di Karaki, Lahore, Faisalabad (rispettivamente
24, 11 e 7.5 milioni di persone) in centri di medio cabotaggio e nei villaggi.
Ma alcune regioni, note principalmente a chi si occupa di geopolitica, come il
Belucistan, dove sorge Quetta, oppure le Kyber Pakhtunkhawa e Aree Tribali
Federali, conosciute con l’acronimo Fata, raccolgono rispettivamente 13 e 40
milioni di pakistani. Un quinto della popolazione, spesso non gente tranquilla,
ma attivisti e combattenti. Sempre chi mastica di politica estera alle città di
Quetta e alla più popolata Peshawar aggiunge la denominazione Shura (che in arabo
sta per Consiglio), entrambe caratterizzate dai ceppi talebani di riferimento. La
Shura storica di Quetta raccoglie i talebani afghani ortodossi, oggi guidati dal
chierico conservatore Akhunzada con l’ausilio del pragmatico Baradar; quella di
Peshawar è influenzata da studenti coranici amici dei pakistani. Fra le due, e nelle
due, agisce la famigerata Rete di Haqqani, un potente clan che con gli eredi
del defunto patriarca Jalaluddin, muove milizie, attentati, pressioni e
rapporti a 360°. Ecco, dunque, alcuni tratti distintivi del Pakistan: Paese in
spaventosa ascesa demografica, enorme laboratorio confessionale, crocevia di
alleanze in diretta correlazione con gli interessi dei grandi del mondo.
E fucìna di distorsione
della politica,
nutrita dalle entità talebane che lì possono muoversi grazie ai poteri interni
(capi di Stato e di governo, esercito, intelligence) capaci d’influenzare quanto
hanno a portata di mano e anche più lontano. Il Pakistan grande guastatore,
dunque, non da oggi. Dopo l’indipendenza e la separazione dall’India con tanto
di guerre per i territori contesi del Jammu e Kashmir, la politica nazionale ha
oscillato attorno alla potente lobby militare (sostenuta da un terzo del
bilancio statale), autrice in varie epoche di golpe, colpi di mano e dittature
(coi presidenti-padroni Ayyab Khan, Yahya Khan, Zia ul-Haq, Musharraf) e la
forza di clan familiari. Il più famoso, i Bhutto, ha espresso capo di Stato e
premier (Zulfiqar e Benazir), le cui vite sono state stroncate da esecuzioni
capitali e attentati. Un ambiente assai agitato, dove sulle contraddizioni
interne ponevano le mani gli alleati statunitensi che per circa mezzo secolo
hanno regolato le proprie intese in base a interessi e dinamiche dello
scacchiere mondiale. In tal modo Islamabad, l’anti-Delhi filosovietica,
riceveva l’arma atomica (attualmente detiene un quarto dell’arsenale globale), mentre
ai vertici della nazione le lotte per il comando rendevano la coalizione non
così tranquilla come Casa Bianca e Pentagono s’aspettavano. Una delle figure
più inquietanti fu il generale Muhammad Zia ul-Haq. Si rivoltò al premier
Bhutto che nel 1976 l’aveva fatto Capo di Stato maggiore, non contento due anni
dopo lo fece condannare all’impiccagione. Con un dispotismo personale sostenuto
dalle Forze Armate, Zia rilanciava il programma nucleare già supportato dagli
Stati Uniti. Dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan sostenne la resistenza
dei mujaheddin, aiutando soprattutto il gruppo fondamentalista dell’Hezb-i Islami di Hekmatyar. In quella
fase sul territorio pakistano trovavano ampio spazio le predicazioni più
radicali del deobandismo e s’instaurava un esplicito integralismo di governo. Non
solo il divieto assoluto della vendita di alcolici e i prelievi forzati ai
cittadini giustificati come zakat, ma
le punizioni corporali, le lapidazioni di donne per presunto adulterio,
condizionavano una nazione che il Partito
Popolare Pakistano e gli stessi orientamenti del padre della patria Ali Jinnah,
volevano diversa dalle arie di Califfato.
Nel 1988 la carriera di
Zia si
schianterà nel Punjab durante un volo, in un mistero rimasto tale solo per la
cronaca. Su questo fronte l’omicidio di Stato rende il Pakistan molto occidentale...
Da quell’epoca la nazione ha accresciuto l’economia con un’accelerazione
industriale privata e ha aumentato le pretese di controllo regionale. Facendo
leva sugli interessi soprattutto statunitensi contro gli avversari storici Urss
e Cina, i governanti di Islamabad s’infilano nelle cento e una crepe regionali
cercando un proprio tornaconto. Ma al fianco delle tendenze da Stato moderno interessato
ai risvolti della globalizzazione, pur nella spirale perversa di consumismo-corruzione-debito
pubblico, si accrescono gli intrighi fra pezzi dello Stato e l’integralismo
confessional-culturale. Le scuole deobandita, in gran parte sunnita hanafita, e
quella hanabalita, dove prevale la predicazione wahhabita, non fanno che
rinfocolare una visione fanatica del proprio credo con facili derive sanguinarie
verso altri culti e nei confronti degli stessi musulmani considerati infedeli.
Considerando che una parte minoritaria, ma non così minuta - è calcolata
attorno al 25% - dei pakistani professa la fede sciita, le tensioni interne in
materia religiosa raggiungono frizioni elevate. E alimentano quel substrato
violento che dalle madrase, come quella storica di Darul Uloom Haqqania dove si
formò il mullah Omar, inondano metropoli e villaggi diffondendo intolleranza, settarismo,
attentatori kamikaze. Il rapporto delle Istituzioni pakistane con tale
substrato ideologico dell’islam politico dei più svariati gruppi talebani è
contraddittorio. Ufficialmente i governi hanno manifestato adesioni agli
accordi internazionali che legano il Paese agli Stati Uniti, ma ad esempio il
riavvicinamento di quest’ultimi all’India di Narendra Modi - che incarna il
duplice ruolo di nemico geopolitico e pure religioso - ha incrementato il
doppiogiochismo di Islamabad. Sia quello voluto dalla leadership nazionale, sia
quello da essa subìto per conto dell’Inter-Services
Intelligence che agisce sopra e contro la stessa ufficialità della politica.
Emblematico fu il rifugio offerto a Osama bin Laden, che era finito ad
Abbottabad non solo grazie alla rete qaedista di sostegno. In realtà i giochi
sporchi, scambiando favori con ogni
fronte talebano, la locale Agenzia dei Servizi li compie da anni, interviene
nelle instabili province afghane per creare la cosiddetta “profondità
strategica” utile alla supremazia regionale che Islamabad insegue.
Ma pur carezzando e
nutrendo la Jihad della resistenza
talebana contro i propri referenti e protettori globali statunitensi, il
governo pakistano deve fare i conti con quel radicalismo di branche come i Tehreek-i Taliban capaci di strazianti stragi di bambini (scuola di Peshawar nel 2014, parco giochi di
Lahore nel 2016) tanto simili alle carneficine dell’Isis Khorasan. E nuclei
ancora più minuti e schizofrenici nel programmare raid sanguinari: Lashkar-i Taiba, Lashkar-i Jhangvi, Harkat-ul
Jiahad-al Islami, Sipah-i Sahaba.
L’effetto boomerang di simili sodalizi divide i governanti fra chi propugna di
sradicare anche con la forza, come avvenne nel 2009 nella valle dello Swat, il
radicalismo islamico e chi non vuole saperne. Nelle dinamiche presenti e future
del Pakistan che condiziona l’Afghanistan entrerà sempre più la Cina, con la sua
politica mercantile bisognosa di sicurezza di determinate aree. Quelle da
sfruttare: il sottosuolo afghano ricco di litio, rame, alluminio, oro, quelle
del passaggio di manufatti: i corridoi che dallo Xinjiang conducono merci al
porto pakistano di Gwadar, evitando d’incanalarle nel Mar cinese meridionale
verso lo stretto di Malacca. In questo gioco delle alleanze di coppia o
triplici che si frantumano e si ricreano, il Pakistan “americano” fa il
voltafaccia a Washington, flirtando con la Cina che negli ultimi anni lì ha
investito 52 miliardi di dollari, e con essa divide un reciproco orientamento anti-indiano.
Primigenio e ricambiato quello di Islamabad contro Delhi, mentre l’India restituisce
a Pechino astio sugli impervi confini dell’Himalaya, cui s’aggiunge la
frustrazione di vedersi scavalcata nella corsa per le “autostrade delle acque” dalla
più corposa smania di supremazia cinese. Cosicché i cospicui investimenti
compiuti dai vertici indiani per la conquista dell’Oceano che porta il proprio
nome - dove viaggiano due terzi del petrolio mondiale e una buona metà dei
prodotti stipati nei container - paiono vani. La Cina non ha mosso un passo durante il
ventennio di presenza militare statunitense in Afghanistan, né vorrebbe farlo
ora, sebbene i vuoti della geopolitica chiedano sempre d’essere riempiti. Ma
rischia, proprio nello Xinjiang col terrorismo a sostegno uiguro del focoso Partito Islamico del Turkestan, e lungo
quella ‘via della seta’ che attraversa valli afghane, a dominio talebano o dei
presìdi dissidenti dell’Isis-K. Il gigante asiatico avrà certamente bisogno
dell’eminenza grigia pakistana, fautrice di un ordine-disordine sintetizzato in
nazione. Una nazione spregiudicata nel condizionare il subalterno vicino e
chiunque gli si avvicini per qualsivoglia interesse.
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