Chissà se alla prossima conferenza stampa mostrerà la stessa flemma Zabihullah Mujahid, già
portavoce talebano e ora ministro della Cultura e della Comunicazione, nel
dover spiegare quanto i suoi compari mettono in atto: ferreo divieto per le
donne di esercitare l’arte musicale e quella corporea attraverso lo sport. Lui
all’unica giornalista di sesso femminile, ammessa all’incontro con la stampa
ormai diventato storico dello scorso 17 agosto, che chiedeva quale sarebbe
stato il futuro lavorativo e civile per le donne rispondeva a mezza bocca che
avrebbero potuto continuare a lavorare e studiare, secondo i princìpi della Shari’a. Princìpi che i talebani
rivisitano secondo il più fanatico fondamentalismo delle scuole coraniche del
deobandismo, con cui reintroducono limitazioni, esclusioni, accompagnamenti con mahram, minacce e repressioni. A neppure
un mese dalle bandiere bianche sui Palazzi di Kabul. A tre giorni
dall’insediamento d’un governo nient’affatto aperto a figure della società
civile, oltre che ai volponi del passato regime, che comunque qualcuno fra i
turbanti avrebbe accettato. Ma l’esecutivo del compromesso benedetto dal
pakistano Hameed, mette in prima fila uomini e ideali estremi seppure mostra di
barcamenarsi su un doppio binario: ricerca di accoglienza e benevolenza
internazionale e volto casalingo severo per stroncare da subito proteste che
potrebbero crescere. Gli sparuti manipoli di donne senza paura dei giorni
scorsi, iniziano a diventare gruppi di centinaia di persone con cartelli,
striscioni, manifestazioni di strada che accusano i taliban d’intolleranza e
oscurantismo. La risposta sempre più dura appare in linea con la volontà
coercitiva del secondo Emirato, che prelude a violenza aperta verso chiunque
ponga diversità di vedute. Una violenza che i giornalisti afghani hanno già
impressa a suon di frusta sulla pelle e di botte sul corpo, inferti da
picchiatori-torturatori coranici, affinché ciascuno si metta in testa di non
poter descrivere, fotografare, filmare gli slogan delle donne coraggiose e
rabbiose contro l’oscurantismo in cammino sulla propria esistenza. Gli uomini
pubblici in turbante stabiliscono questo duplice comportamento: affabile
accettazione per i reporter stranieri, tornati numerosi sulle polverose strade
afghane. Legnate e minacce di morte ai cronisti locali che non dovranno aiutare
i colleghi né collaborare coi media mondiali. Non dovranno raccontare restrizioni
e pene quotidiane d’una popolazione minacciata e vessata o impaurita e acquiescente,
l’epilogo può essere la morte.
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