giovedì 29 luglio 2021

EgyptWide: Mappare la repressione, un rapporto al Senato Italiano

Attiva sin dallo scorso giugno EgyptWide, rete che raccoglie sessantaquattro organizzazioni della società civile di varie nazioni del mondo, impegnata a richiedere ai propri Paesi, alle Nazioni Unite, allo stesso regime guidato da Abdel Fattah al-Sisi un monitoraggio sulla situazione dei diritti umani in Egitto, ha presentato oggi al Senato della Repubblica Italiana il proprio documento “Mappare la repressione”. La denuncia è nota: da otto anni il grande Paese arabo vive una drammatica riduzione dello spazio di vita pubblica. Non sono perseguitati solo oppositori, sindacalisti, attivisti, giornalisti, avvocati, ricercatori, il clima di terrore è diffuso fra la popolazione che teme di finire in prigione o peggio di morire per via, in una stazione di polizia, in un luogo di tortura segreto. Questo blocca da tempo la vita civile di milioni d’individui. Tutto è giustificato da “operazioni di sicurezza nazionale” che non riguardano affatto la sicurezza individuale e collettiva, al contrario in maniera criminale attentano alle certezze e alla libertà, come testimoniano i casi degli assassinati dal regime. Il meccanismo innescato punta alla paura, cosicché ciascuno nel proprio ruolo ideale, professionale e nello spirito critico del semplice cittadino perda la possibilità di esprimersi, temendo di finire nel girone infernale delle detenzioni arbitrarie, dei processi infiniti, delle vendette dirette o trasversali. I “sette passi” che EgyptWide propone a chiunque voglia sostenerla nel grido d’allarme sono così cadenzati: rilascio di tutti i prigionieri politici, blocco delle rotazioni detentive, revoca dello stato di emergenza imposto dal 2017 in violazione della Costituzione, rinvio delle condanne a morte emesse, fine dei procedimenti penali contro i difensori dei diritti umani, dialogo su un diritto di famiglia equo soprattutto per le donne, eliminazione della censura per gli oltre seicento quotidiani online e siti Internet bloccati. Nel dossier son menzionati anche alcuni fra i detenuti più noti: il giornalista e ricercatore politico Ismail al-Iskandrani, condannato a dieci anni di reclusione dopo l’arresto nel 2015 e oltre due anni di rinvii detentivi. La sua colpa è studiare i gruppi islamisti. Sayed al-Banna, avvocato dei diritti, è da oltre due anni in attesa di processo con l’accusa di adesione a gruppi terroristi. E’ vittima della formula del rinvio in cella ogni 45 giorni. Era già stato arrestato nel 2016 per aver partecipato alle proteste contro la cessione ai sauditi delle isole Tiran e Sanafir. 

 

Altro avvocato è Haitham Mohamadeen, in custodia cautelare dal 2019 anch’egli accusato di terrorismo e per aver pubblicato notizie false. Aderente del partito socialista rivoluzionario, ha partecipato alle proteste sociali del 2008, alla rivolta di Tahrir, fondando il Revolution Road Front e aderendo al Centro El Nadeem contro le vittime di violenza. Arrestato più volte, sarebbe dovuto tornare in libertà nel marzo di quest’anno ma il rilascio non c’è mai stato. La giornalista Shaimaa Sami, ricercatrice e attivista dei diritti. Nel maggio 2020 è stata sequestrata presso la sua abitazione ad Alessandria, detenuta in luogo segreto per una decina di giorni, quindi condotta nella Procura per la sicurezza nazionale e accusata di diffusione di notizie false e terrorismo. Sarebbe dovuta uscire di prigione nel gennaio 2021, ma la custodia del tutto illegale è proseguita,  “giustificata” dal rinnovo automatico ogni due settimane. Ramy Shaath, difensore dei diritti e coordinatore in Egitto della campagna “Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni” per lo Stato d’Israele. Noto per il sostegno della causa palestinese, anche per questo è accusato di rapporti con “gruppi terroristici” che s’oppongono allo sgombero forzato delle case di Gerusalemme Est. Shaath ha vari processi in corso e il suo stato detentivo risulta particolarmente complesso. Walid Shawky è un medico dentista, impegnato sul fronte dei diritti umani. Aderendo al movimento 6 Aprile si è ritrovato nel 2018 in manette nella sua clinica del Cairo con l’accusa di vicinanza a un gruppo terrorista. A due anni dall’arresto non ci sono prove materiali contro di lui, ma la regola dei rinvii ogni 45 giorni, lo tiene in cella. L’architetto e ricercatore Ibrahim Ezz El-Din è in custodia cautelare dopo aver conosciuto nel 2019 un rapimento e una detenzione in luogo non identificato per cinque mesi e mezzo. Duramente torturato con vari arnesi, digiuni, privazioni del sonno, a fine dicembre 2020 è stato prosciolto dalle accuse di diffusione di notizie false (s’era occupato di lotte per gli alloggi e sgomberi forzati di strati umili della cittadinanza), però non è mai uscito di galera. Lo studente-ricercatore Ahmed Samir, residente in Austria, è stato bloccato dopo il suo rientro in Egitto, incautamente aveva pensato a una vacanza sul Mar Rosso. Nello scorso febbraio, di ritorno dalla villeggiatura, s’era recato in una stazione di polizia dove è stato trattenuto dal Servizio di Sicurezza Nazionale. Incappato in interrogatori e torture per ritrovarsi bloccato di quindici giorni in quindici giorni fino a oggi. 

 

Sanaa Seif, regista e attivista, è stata condannata a un anno e mezzo di reclusione una prima volta nel 2020. Nello scorso marzo la condanna s’è ripetuta per l’aiuto offerto alla madre che inscenava un sit-in davanti alla prigione di Tora 2 dov’è rinchiuso un altro membro della famiglia. Mohamed Adel, blogger e attivista dei diritti umani, è fra i fondatori del Movimento 6 Aprile, aveva dato vita alle proteste contro Mubarak nel 2008. Fermato nel 2013, arrestato per tre anni e condannato ad altri tre di libertà vigilata, ha subìto un ulteriore arresto nel 2018 per diffusione di false notizie. Nel 2020 è stato inserito in un altro caso repressivo per terrorismo e divulgazione d’informazioni sensibili. Resta in custodia cautelare per due procedimenti. Mohammed al-Baqer è un difensore dei diritti che dirige il Centro legale “Adalah”, è rinchiuso nella prigione di massima sicurezza ‘Skorpion’. Venne rinchiuso in prigione  mentre prestava assistenza legale all’attivista Abdel Fattah e come lui accusato di terrorismo, dopo più d’un anno e mezzo dall’arresto l’accusa non ha mostrato nessuna prova, solo congetture. Alaa Abdel Fattah, blogger e attivista fu rinchiuso per un caso del 2019, il refrain è il solito: notizie false e terrorismo. Conosciuto per l’impegno libertario durante l’intera fase di ribellione del 2011, è finito immediatamente nella rete repressiva dopo il golpe del 2013 scontando cinque anni di libertà vigilata. Nel settembre 2019 è stato nuovamente arrestato con le medesime accuse ed è tenuto in surplace, ovviamente in galera. Di Patrick Zaky in Italia si sa tutto. Anche i nostri senatori e il governo Draghi sono al corrente dei soprusi del regime egiziano che l’incastrano. Assieme ai tanti compagni di sventura vessati da Sisi riuscirà a ricevere quel reale sostegno internazionale invocato da EgytpWide?

Tunisia, quel che bolle in pentola

Sono in tante, e già formano un bel coro, le voci pronte a dire che no, RoboCop-Saïed non è il golpista che appare. E’ un esperto di diritto, proprio Costituzionale, non un militare assetato di potere personale. Ha raggiunto la massima carica dello Stato evitando l’appoggio dei partiti. Eppure… Eppure basterebbe osservare le sue mosse, compiute in parziale disprezzo della Carta Costituzionale, cui comunque si richiama usando come grimaldello norme interpretate soggettivamente. Quell’articolo 80 cui s’è richiamato per sbarazzarsi d’un premier a dire di molti incapace, prevede la condivisione con figure: il presidente della Corte Costituzionale,  che da anni non è stata nominata, il presidente del Parlamento, che lui ha evitato come la peste. L’ha evitato perché quell’incarico è ricoperto da Rachid Ghannuchi, vecchio leader del non amato partito Ennahda, e questo è comprensibile. Ma le regole sono regole e Kaïs Saïed, mostra di amarle e soffrirle a piacimento. Ancor più non ama un parlamento, dove il partito islamico ha una maggioranza, cosicché ne congela il ruolo mentre cerca di cooptare un premier acquiescente al suo disegno. Che se non sarà quello di imporre il futuro a suon di carri armati - ma mai dire mai - usa come un carro armato una forzata sua autorità, cavalcando la polarizzazione d’un Paese ampiamente in affanno. Per le politiche liberiste del fu presidente Essebsi, per gli attacchi terroristici dell’Isis che da cinque anni hanno fatto inabissare l’economia turistica, per la mediocrità del ceto politico tunisino, islamico e laico, per la corruzione di troppi personaggi coinvolti nella politica. Eppure da ‘cavaliere solitario’ orientamenti e progetti futuri Saïed li mostra chiaramente quando duetta con gli uomini forti della restaurazione del mondo arabo mediterraneo. Si consulta con lo staff del golpista Sisi, vede di buon occhio il signore della guerra Haftar, la coppia egiziano-libica che rientra nella restaurazione mediorientale orchestrata dal principe Bin Salman, innovatore tecnologico-finanziario del suo impero redditiere, e oppressore dei diritti appena si può, un po’ ovunque. 

 

Questa è l’altra faccia dell’espansione regionale di cui l’Occidente accusa, non a torto, la Turchia erdoğaniana ma nel Risiko delle varie sponde mediterranee, fra chi c’è e chi vorrebbe esserci e dettar legge, la partita è variegata e apertissima. La minuta e travagliata Tunisia si ritrova schiacciata in un disegno geopolitico certamente più grande di lei, bisognosa di aiuti sanitari, come tante nazioni africane, per il flagello del Covid e desiderosa d’aiuto esterno per offrire lavoro alla sua gente, per metà disoccupata o ridotta alla stessa disperazione di cui s’immolò Bouazizi. A conferma della spaccatura che corre nelle menti del popolo tunisino ci sono le opposte considerazioni esposte in queste ore. La scrittrice Hela Ouardi, docente di letteratura presso l’Università di Tunisi, dichiara al Corriere della Sera che non è in corso l’ennesimo scontro fra mondo laico e islamico. A suo dire Saïed sta lavorando come un chirurgo (sic) anche se i suoi tagli estirpano un premier, mettono in coma il Parlamento… Invece Saida Ounissi, deputata e portavoce di Ennahda,  intervistata da Al Jazeera (da Doha perché la redazione dell’emittente a Tunisi è stata fatta chiudere da RoboCop), afferma: “La questione è chiara, il presidente Saïed sta attaccando la democrazia. La sua azione produce una sorta di confisca del potere, ovviamente illecita. Il riferimento all’articolo 80 della Costituzione è solo un pretesto. Non esiste alcun pericolo imminente per la nazione. Esistono problemi di salute pubblica per la pandemia da Covid, e vanno risolti anche con l’aiuto internazionale che invece è avaro di dosi vaccinali e di strumenti sanitari. Esistono problemi economici e di gestione amministrativa, non diversi da quelli che si sono accumulati per anni, sotto varie gestioni politiche”.  

 

lunedì 26 luglio 2021

Tunisia, colpi da RoboCop

Il pugno duro di RoboCop, come viene definito il presidente tunisino Kaïs Saïed, per l’incedere marziale, l’eloquio cadenzato, l’intento giustizialista, ha steso in un colpo solo l’evanescente primo ministro Mechichi, costretto alle dimissioni, e lo stesso Parlamento congelato dal suo blitz. Polizia davanti all’organo istituzionale, deputati a spasso senza immunità per un mese, applausi dai sostenitori che protestavano contro un governo incapace e corrotto, mentre il partito Ennahda lancia un j’accuse a questo decisionismo destabilizzante. Il suo vecchio leader al-Ghannuchi, attuale presidente proprio del Parlamento, denuncia un colpo di mano contro la democrazia e la Costituzione, cui invece si richiama Saïed, citando l’articolo 80 dei 149 che la compongono. Ma quel capitolo, riferito a “misure eccezionali” da prendere in caso di pericolo per la nazione può essere attivato dal Capo di Stato, coinvolgendo il premier, il reponsabile del Parlamento e informando il presidente della Corte Costituzionale. Peraltro dal gennaio 2014, entrata in vigore della nuova Costituzione, quella Corte non è mai stata nominata. Lasciando un contraddittorio danno in un processo normativo giudicato compromissorio seppure positivo. Un esempio noto sul fronte dei diritti civili riguarda l’omosessualità che l’attuale Codice penale tunisino considera un reato, spedendo in carcere chi la professa. Ma chi in queste ore grida per le strade di Tunisi e anche di altre località, accusa l’Esecutivo d’incapacità di gestione della pandemia da Covid, che con l’ondata della variante Delta ha innalzato i decessi portandoli a 18.600. I timori dei contagi, che vanno di pari passo con gli scarsi mezzi per tamponarli, soprattutto sul versante vaccinale, rappresenta la punta d’un imbarazzo più profondo, di tipo economico, la grande incompiuta del Paese nonostante la cosiddetta “Rivoluzione dei gelsomini”. 

 

La cacciata del satrapo Ben Ali, l’illusione d’una svolta islamista con le punte d’un salafismo che eliminava fisicamente gli avversari laici, come nel caso degli omicidi Belaid e Brahmi, i colpi di coda jihadisti con gli attentati al Museo del Bardo e il reclutamento di giovani tunisini nelle file dello Stato Islamico. I distinguo compiuti proprio da al-Ghannuchi che all’epoca sosteneva come quelle violenze si rivolgessero contro “il processo di democratizzazione della nazione che voleva distinguersi dal caos egiziano, libico, siriano”. Ma come e più dei Paesi citati, un fattore bloccava e blocca l’emancipazione: l’impossibilità di sviluppare un percorso economico autoctono. Negli anni in cui i tunisini che vivevano delle prebende e del clanismo alimentato da Ben Ali, hanno cercato riparo nel partito moderato e liberista Nedaa Tounes, incarnato dal vecchiume fisico e mentale del presidente Essebsi che vivacchiava senza studiare né lavorare per un sistema differente, la disoccupazione è salita alle stelle coinvolgendo il 40% della popolazione giovanile, che rappresenta un terzo del Paese. E quando RoboCop-Saïed, che di mestiere non fa il poliziotto e ha un passato di docente proprio di diritto Costituzionale, vinceva nel 2019 la contesa per la presidenza della Repubblica, prevaleva anche col disperato voto di quei giovani che non vogliono finire nella spirale della violenza jihadista e non hanno le migliaia di dollari per i viaggi degli scafisti sempre meno sicuri, non solo per la tenuta in mare, ma per l’accoglienza sulle coste italiane e le collocazioni in Europa. Saïed vinse facendo meno dell’appoggio dei partiti, battendo il quotato tycoon Nabil Karoui, però come quest’ultimo non ha dedicato alcuna attenzione al cancro che corrode la Tunisia: un’economia asfittica. Prendersela con l’ultimo figurante posto a capo del governo, è facile e maramaldo come cavalcare il malcontento. Cosa fa RoboCop per il suo popolo, oltre a chiudere il Parlamento? 

giovedì 15 luglio 2021

L’Egitto: cella o obitorio

Accadeva già nel 2011, dopo il 25 gennaio, con la crescente contestazione all’Egitto di Mubarak. Nei giorni seguenti la grande manifestazione di Tahrir, quando la repressione militare diretta dal peggior mukhabarat in circolazione, il generale Suleiman, attuava arresti di massa, i giovani fermati finivano nel campo della Montagna Rossa, schiacciati a terra e bastonati. Privati dei vestiti con le basse temperature notturne e al mattino seguente svegliati elettricamente coi cavi, un criminale esercizio che poteva durare ore. Al detenuto Moka, entrato e uscito di prigione per un cospicuo periodo di tempo, accadeva questo. Un’epoca che non è finita, anzi è peggiorata e vede l’attivista e suoi simili ridotti in misere condizioni. Dopo quattro anni di galera Moka s’è ritrovato di nuovo perseguitato. Altri due anni di dolore e di pene. Di recente ha infilato cinquanta giorni di sciopero della fame, e chi l’ha incrociato fra le sbarre ne ha descritto una prostrazione infinita. Parlava con gli scarafaggi che gli ballavano attorno nella cella, batteva i pugni contro la porta che nelle ore calde diventa una lastra rovente sotto i raggi solari. In quello spazio angusto si può soffocare perché l’aria diventa mortifera per i riverberi infuocati. Per tacere della promiscuità che non preserva dai contagi Covid. E’ la “normalità” con cui il sistema carcerario egiziano crea quanto più disagio si possa offrire ai detenuti, quelli politici su tutti. Un detto assai diffuso parla di percorso obbligato per i dissidenti: cella oppure obitorio. Possono scegliere loro stessi in base alla condotta, ovviamente le due strade si possono unire, visto che in varie circostanze il carcere è diventato esso stesso patibolo o luogo di morte. E’ di queste ore la denuncia di attivisti anti-regime su un’ultima vittima dell’autoritarismo imperante: una ricercatrice egiziana impegnata a Berlino è stata fermata all’aeroporto del Cairo. Sequestrata per un giorno intero è stata poi liberata dietro il pagamento d’una cauzione. Le è andata benissimo. Rientrava in patria per una visita ai genitori, difficilmente la ripeterà. Il cosiddetto ‘sistema di sicurezza’ egiziano attraverso le ambasciate compie una sorta di schedatura dei cittadini all’estero, nel mirino finiscono giovani giornalisti, storici, sociologi. Ogni tipologia di studio fuori dai confini, specie se in Occidente, viene ostacolata con cavilli burocratici; diventa sempre più difficile rinnovare passaporti, ottenere documenti di laurea per intraprendere dottorati di ricerca. Le maggiori capitali europee ormai sono mete impossibili da raggiungere, così l’apparato di Sisi cerca di bloccare una nuova leva di pensatori critici. Nuovi Patrick Zaky non sono ammessi, se accadrà li attende la galera.  

venerdì 9 luglio 2021

Talebani, famiglia ambiziosa e rissosa

Con la partenza statunitense e delle truppe Nato dall’Afghanistan gli  occhi della geopolitica internazionale sono orientati sulla galassia talebana pronta a occupare, accanto a ulteriori distretti, i punti chiave del Paese. Se essa, come un venticinquennio fa, proporrà un potere centrale lo scopriremo nel tempo. Per ora si conoscono le sue divisioni, la lotta per la supremazia territoriale combattuta a suon di attentati sulla pelle d’una cittadinanza inerme, i contrasti fra clan patrocinati da nazioni amiche. Dunque la via per Kabul non è affatto lineare. Difficilmente sarà pacifica, al di là se chi è costretto ad abbandonare il comando, non certo il controllo del Paese che non ha da tempo: i Ghani, gli Abdullah, l’antica nomenclatura, organizzerà fazioni armate. Ostilità possono aprirsi direttamente fra talebani ortodossi e dissidenti che per tre anni si sono misurati a distanza massacrando la popolazione. Ai maggiori pretendenti della Shura di Quetta diretti da Akhundzada, s’oppone lo Stato Islamico del Khorasan. Uno dei suoi leader, Ahmad Farroqi, è stato arrestato dall’Intelligence afghana quindici mesi fa, subito dopo aver progettato e fatto eseguire l’attentato al tempio di Kabul (marzo 2020), ma continua a godere la protezione della potente struttura dell’Intelligence pakistana (Isi). Un organismo che può condizionare esercito e premier, in tanti casi è accaduto, e l’attuale primo ministro Khan non sembra far eccezione. 

 

Esperti d’intrighi pachistani riferiscono d’una spaccatura nell’Isis del Khorasan, e nuovi raggruppamenti di talebani dissidenti, i Taliban Khattak che vanno ad aggiungersi ai Tehreek- i Taliban e all’ondivaga Rete di Haqqani, tutti ostili ai coranici del mullah Barader che hanno firmato il trattato di Doha e s’accingerebbero a organizzare un futuro governo. Per l’espresso benestare dei Servizi di Islamabad verso il descritto intreccio, volto a ostacolare il viaggio dei turbanti ortodossi sulla Kabul del potere, l’idea d’una transizione burrascosa e guerrafondaia appare certa. Anzi, l’occasione per condizionare le vicende afghane da parte pakistana appare scontatissima con l’aggiunta della novità di chi si colloca dietro quella potenza regionale. Uscita l’America alcuni giurano che si farà avanti proprio la Cina, finora penetrata, come ovunque nei continenti che gli interessano, cioè tutti, tramite  le setose vie dell’affarismo economico. E’ quanto sostiene un recente intervento presente nelle pagine della rivista Limes, che ricorda l’affanno di Pechino sul separatismo uiguro, da lì una ricerca d’aiuto sul terreno pakistano da sempre vicino al fondamentalismo islamico. Fra le opzioni a disposizione dei poteri di Islamabad - che spesso non coincidono e si elidono visto che politica ufficiale, esercito e Servizi percorrono strade anche differenti fra loro - quella del terrorismo itinerante risulta più praticabile e potente della stessa bomba atomica. Quest’ultima non si usa, mentre le frange che prosperano nelle Aree Tribali Federali (Fata) possono venir direzionate.

 

Ovviamente non a totale piacimento. I signorotti della guerriglia o più precisamente del camion-bomba mostrano anche mire soggettive, vanità personali, narcisimo altalenante. Un esempio è proprio l’epigono della Rete di Haqqani quel Sirajuddin succeduto al padre Jalaluddin. Al di là del mai risolto complesso edipico verso un padre con famoso e ingombrant - che s’era fatto le ossa nella resistenza anti-russa dando poi vita alla Shura di Peshawar contraltare della Shura di Quetta - genitore, figlio e accoliti hanno voluto mantenere un’autonomia operativa dagli altri nuclei talebani. In più occasioni si sono distinti per azioni sanguinosissime segnate da logiche tribali prive d’un disegno complessivo se non quello di dettare legge nei cinquecento chilometri di confine fra Afghanistan e Pakistan. Col controllarne traffici d’ogni sorta dai quali riscuotere dazi, che assieme ai finanziamenti dei “donatori” del Golfo costituiscono la forza finanziaria del gruppo. La loro formazione confessional-ideologica è vicina al deobandismo della madrasa Darul Uloom Haqqania (di qui il nome del gruppo), ma gli orientamenti tattici vengono suggeriti dall’Inter Servis pachistana. Solo all’autorità del mullah Omar, Haqqani padre decise per un periodo di sottostare, mentre due anni fa in una sorta di emulazione Sirajuddin sembrava accettare la linea di trattativa stabilita a Doha dai seguaci di Akhundzada. Un suggerimento via l’altro i Servizi pachistani disponibili alle lusinghe cinesi (e alle loro elargizioni) potrebbero indicare ai talebani dissidenti un copione per non infuocare la situazione interna afghana. Ma il loro fondamentalismo islamico, sensibile ai dolori patiti dai fratelli nello Xinjiang, avrebbe qualcosa da ridire. Così il cielo afghano resta assolutamente tempestoso.

lunedì 5 luglio 2021

Viaggio a Kandahar, i talebani tornano a casa

Dire che i taliban si riprendono Kandahar è un eufemismo. Di quella provincia hanno le chiavi di casa. Da lì partì la conquista del potere in un Paese liberato dall’occupazione sovietica e caduto in un lacerante conflitto etnico, tribale, religioso, clanistica, affarista. L’avevano combattuto i peggiori Signori della Guerra locali, abilissimi nella resistenza a un’Armata Rossa tutt’altro che motivata, e comunque messa in ginocchio dalla sagacia di certi guerriglieri dipinti come supereroi. Prendiamo Aḥmad Massud, leone del Panshir, non era Alessandro il Macedone, ma di capacità tattica, intelligenza, empatia ne aveva da vendere. Era amato non solo dai seguaci tajiki, dalla stessa stampa internazionale che lo carezzava con panegirici, interviste alle quali lui si prestava sfoderando un impeccabile francese. Il glamour gli fu fatale, nel settembre 2001 con una finta intervista due kamikaze, spacciatisi per cameramen di un’emittente marocchina, lo fecero saltare per  aria e s’immolarono. L’anno seguente il comandante, considerato un eroe nazionale, venne insignito d’un postumo Premio Nobel per la pace. Pensate un po’: un passo che rientra perfettamente nella manipolazione della realtà afghana che, se con gli intrighi del ‘Grande Gioco’ imperialista ottocentesco è cosa antica, con le recenti occupazioni è diventato parossistico. 

 

I mujaheddin che liberavano il suolo patrio dagli improvvidi russi, avevano gli arsenali colmi di missili Stinger con cui abbattevano gli elicotteri d’assalto di Mosca, e le casse colme di dollari americani e petrodollari sauditi. E’ storia risaputa. Ma dal 1989 per tre anni consecutivi i tajiki di Massud e Rabbani, i pashtun di Hekmatyar e Sayyaf, gli hazara di Mazari e Mohaqiq, gli uzbeki di Dostum - e poi Fahim, Khalili la lista è lunga, può proseguire con vecchi e rinnovati nomi - non trovando un accordo per guidare il Paese pensarono di risolvere la questione sparandosi addosso. Intrecciavano alleanze di comodo che potevano durare mesi o lo spazio d’un giorno e vomitavano morte. Martellavano coi mortai, collocati su alcune alture attorno a Kabul, l’altopiano sottostante dove viveva la popolazione. In quattro anni fecero ottantamila morti, forse più. E da quel 1994 un mullah di Kandahar, di nome Omar, raccolse gli studenti coranici trasformati in combattenti per una battaglia contro altri islamici, i Warlords, che continuavano a mantenere la nazione prostrata ai loro piedi, massacrandone i figli, riempendo di caos e lutti l’esistenza quotidiana. Aggregando nelle proprie file migliaia di giovani afghani, Omar e i suoi, quando due anni dopo cinsero d’assedio la capitale, venivano visti da molta gente, non da tutta, come i messaggeri d’una prossima stabilità. 

 


Durò pochissimo, anzi niente. Poiché la Shari’a talebana era letta con lenti non dissimili da quelle dei fondamentalisti che scalzavano. Omar non era diverso da Hekmatyar, il leader che s’era conquistato l’epiteto di macellaio di Kabul. Lo stadio e altre spianate della capitale divennero i luoghi di esecuzioni pubbliche, rivolte si badi bene non ai Signori della Guerra che intanto erano riparati in Paesi limitrofi, su cui spiccano Pakistan e Iran, sempre desiderosi di decidere d’orientare l’Afghanistan verso i propri orizzonti. Le fucilazioni colpivano cittadini pizzicati dall’istituita ‘polizia religiosa’ e rei di non seguire indirizzi morali consoni alla legge coranica. Ovviamente le donne finivano in prima fila nella repressione: le si vietava d’uscire di casa se non accompagnate da un uomo di famiglia, s’impediva loro di studiare e lavorare. Le si lapidava al sospetto di adulterio. L’onta delle lapidazioni pubbliche segnò l’onda sanguinaria del regime talebano, inducendo una diffusa disillusione. Fino alla quintessenza di gesti simbolici d’ottusa follìa, come la distruzione dei Buddha di Bamyan, scavati nella roccia da circa due millenni, e disintegrati dai coranici con un’iconoclastìa non dissimile da quella mostrata più tardi dall’Isis a Palmira.

 

Con l’invasione della Nato, coi governi fantoccio Karzai e Ghani che riciclavano i Signori della Guerra e promuovevano fanatismo - sebbene mascherato nella Loya Jirga da leggi favorevoli alle donne - è proseguita la grande bugia d’una trasformazione della nazione afghana. Chi ama quel Paese e il suo popolo, l’ex parlamentare Malalai Joya lo predica da almeno tre lustri, afferma che non è così. Le truppe occidentali ora in smobilitazione, che contavano un decennio or sono oltre centomila soldati, hanno donato ai talebani, pur orfani di Omar, l’etichetta di patrioti resistenti. Loro se la sono appuntata al petto, perché agli occhi di qualsiasi afghano non servile agli interessi occidentali, quei tank, quegli aerei, quei droni, quelle extraordinary rendition, hanno colpito tanta gente comune e innocente, facendo duecentocinquantamila vittime, quattro milioni di profughi, un’infinità di sfollati interni, decine di migliaia di migranti obbligati all’anno. Se fra qualche giorno o settimana i taliban entreranno nell’area di Kandahar, su cui compiono incursioni da un decennio, nessun cittadino locale si sorprenderà. Come potrà accadere per altri centri, che un fuggitivo generale Miller dice bisognerà difendere. Nessuno può farlo, perché l’esercito interno finanziato, assistito, addestrato per otto anni a suon di miliari di dollari è una cartapesta senza speranza, peraltro abbandonato da chi non sa per chi e cosa combattere. Perché a Doha gli americani hanno deciso che saranno i nemici d’un ventennio a governare l’Afghanistan.

sabato 3 luglio 2021

L’Afghanistan dietro l’angolo

Quanto tempo manca alla caduta del governo Ghani? Sei mesi, due anni? Un conto alla rovescia che appassiona qualche analista cabalista, intento a cercare nei segnali del ritiro statunitense l’Afghanistan che bolle nel pentolone geopolitico. Quanto c’è di conosciuto, mostrato, intuito è sempre utile per talune previsioni. Fra gli occupanti pronti a sloggiare, l’ex super comandante a Kabul, il generale Miller, in una delle ultime conferenze stampa ha riferito che le restanti forze sono sparse fra Kabul e la base aerea di Bagram, il tentacolare rifugio di truppe e contractors diventato il punto d’uscita dal Paese. Il quartier generale Nato è in via di smobilitazione, a guardia dell’ambasciata Usa e dei diplomatici ancora presenti, restano 650 militari. Smobilita pure tanta tecnologia high-tech per le comunicazioni, compresa quella di supporto ai raid aerei contro i talebani per assistere le truppe di terra, e magari massacrare i sanitari di ospedali come accadde durante l’assedio di Kunduz alla struttura di Médecins sans Frontières. E perdonate i retropensieri…

 

Mettere in sicurezza la situazione nelle grandi città” – ha affermato Miller. Ma è tanto per dire. In che modo se non sono bastati sette anni sette d’impegno e miliardi di dollari spesi? Da alcuni mesi risultano copiosi i ritiri e gli abbandoni di reparti e ufficiali afghani che vogliono salvare la pelle. Il futuro è ampiamente favorevole agli studenti coranici, come hanno deciso la stessa Casa Bianca e la diplomazia internazionale con gli accordi di Doha. Ghani e il suo governo, snobbati da Washington, odiati dai talebani che li disprezzano come incapaci servitori degli occupanti, penserebbero a rilanciare milizie armate di vecchi e nuovi Signori della guerra. Milizie contro i turbanti. Al pensiero la cittadinanza più anziana rivive lo spettro della guerra civile degli anni Novanta. Sull’ipotesi di attrezzare manipoli Abdullah, l’anti Ghani odiato quanto lui, è stato sibillino, non sapendo nulla dell’impatto bellico su cui gli ennesimi belligeranti potrebbero contare. Per quanto s’è visto negli ultimi tempi i mercenari, d’ogni risma, possono al massimo difendere qualcosa – compound, stazioni, merci, persone in transito – ma il controllo di province è altra cosa. E soprattutto: i guerrieri a pagamento non riescono a contrastare chi è mosso da un piano più ampio, politico, etnico, confessionale. 

 

L’osso duro nel controllo delle strade contro cui i taliban ortodossi hanno dovuto competere, sono gli ex compagni di lotta, i dissidenti del Khorasan, i Tehrik che hanno dato vita alle milizie dell’Isil. Contro cui, comunque, lo scontro è stato indiretto, incentrato sul terrore diffuso a suon di bombe sanguinarie contro la popolazione inerme. Gli studenti coranici hanno continuato a rosicchiare tratti di territorio a un esercito che, come detto, perde pezzi. Ultimo esempio: i distretti settentrionali verso Balkh, Kaldar a loro da sempre ostili, diventano zone ormai controllate dagli uomini di Akhundzada. Il programma di mostrarsi forti anche in aree non pashtun è funzionale alla resa dei conti rivolta ai palazzi del potere di Kabul. Capitale assediata, non solo perché manipoli taliban scorrazzano indisturbati a neppure 60 miglia di distanza, ma perché le stesse arterie d’accesso via terra al di là di quella distanza non vanno da nessuna parte. Da fine giugno la viabilità verso il Tajikistan, l’asse strategico rivolto all’Asia, è roba talebana con la compiacenza di abitanti non pashtun e delle citate defezioni di truppe afghane. Che un meticoloso ufficio propaganda filma e divulga sul web, a totale disonore d’un governo molto più che fantasma. 

 

Il limite talebano si misura se si alzano gli occhi al cielo. Non per pregare Allah. La questione è tecnica: lo spazio aereo gli è stato finora interdetto e nel ritiro statunitense poco e nulla si sa di ciò che accadrà in quella decina di basi unico bottino americano nei vent’anni di guerra. La speranza delle eventuali truppe  mercenarie di Ghani d’usufruire della tecnologia americana è legata alla benevolenza della Casa Bianca, che di recente proprio col Biden propugnatore della smobilitazione, ha promesso 40 elicotteri da guerra al governo amico. Ma chi li condurrà? Nei passati scontri avieri afghani non erano all’altezza dei mezzi tecnici di cui disponevano, e comunque per non rischiare i talebani sembra abbiano aperto una caccia a piloti e tecnici locali da eliminare con agguati e imboscate. Questo riferisce l’Intelligence locale, ma forse a un ipotetico governo talebano gli aviatori servono vivi. Tre miliardi e mezzo di dollari l'anno per la sicurezza prima dell’addio, è il regalo promesso dal presidente Usa fino al 2024. Il destinatario può essere un uomo col turbante, e non è detto sia il Ghani di certe comparsate etniche.

giovedì 1 luglio 2021

Donne a Istanbul: “Fermeremo i femminicidi”

In migliaia a urlare contro una scelta scellerata, ufficializzata tre mesi or sono, ma per la quale le donne turche, kurde e d’altre minoranze presenti nel Paese non vogliono smettere di lottare. Il ritiro dalla ‘Convenzione di Istanbul’, attuato con decreto presidenziale, ha compiuto una retromarcia su un trattato che l’allora premier Erdoğan aveva promosso nel 2011 assieme a quarantacinque rappresentanti di altrettante nazioni. Era stato un passo importante di denuncia e contromisure da opporre alla violenza di genere. Presente ovunque, ma che in Turchia continua a crescere, facendo registrare nel 2020 trecento femminicidi e 171 casi di morti sospette di donne. Eppure la manovra politica del presidente - che al proprio conservatorismo somma quello degli alleati nazionalisti, sempre più indispensabili alla tenuta del sistema varato con la rinnovata Costituzione del 2017 che ne ha aumentato un personalissimo potere - può diventare un boomerang. Si registra una crescente adesione ai gruppi denominati “Fermeremo i femminicidi” animati da femministe, attiviste d’opposizione, cui aderiscono giovani e donne rimaste finora lontane dalle manifestazioni di piazza, anche per il livello di repressione cui sono sottoposte. Era accaduto ai primi raduni e sit-in, dopo la decisione del 20 marzo scorso, quando agenti in divisa e in borghese avevano trascinato via ragazze, malmenandole e arrestandole. Proprio com’era accaduto agli universitari bogazici, mobilitatisi nei mesi invernali contro l’insediamento d’un rettore non eletto bensì cooptato dal partito di maggioranza (Akp) e collocato a dirigere il prestigioso ateneo sul Bosforo. 

 

Si mira a cancellare un decennio d’impegno che ha catalogato come bieca violenza sulle donne la sequela d’uccisioni, che gli stessi media tendevano a presentare come morti generiche, quasi fossero accidentali anche se si riusciva facilmente a risalire all’assassino: marito, fidanzato, amante, amico, conoscente o sconosciuto che fosse. Una campagna intensissima per sensibilizzare fasce della popolazione, compreso il genere maschile, perché quest’innaturale violenza potesse essere bloccata, perché non venisse più giustificata secondo schemi patriarcali e machisti, difesa da alibi per comportamenti e costumi fuori dalla civiltà e dal tempo. Ma i comportamenti criminali di quei maschi assassini possono ritrovare conforto in un quadro legislativo e giuridico che ritorna lasso e di cui la retromarcia sul Trattato di Istanbul è un palese esempio. La linea governativa, ampiamente ripresa dai media locali, sottolinea come i gruppi antiviolenza orientano le proprie posizioni su una “normalizzazione dell’omosessualità” totalmente incompatibile coi valori della famiglia e della tradizione. Un orientamento che accomuna il conservatorismo d’ogni sponda e confessione, visto che simili tendenze sono espresse in Italia da Salvini e Meloni, che si dichiarano cattolici come il premier ungherese Orbán. E da Putin nell’ortodossa Russia. Da parte sua Erdoğan, ovviamente sintonizzato con la tradizione della società e della fede islamica, ha ricordato l’impegno statale a difesa del ruolo della donna oltre la Convenzione un tempo sottoscritta. Ma proclami e comizi nulla possono davanti ai fatti. In questi anni seppure in Turchia gli assassini di genere siano proseguiti e aumentati, il Trattato costituiva un baluardo al quale potersi appellare. Ora non più. Le donne l’hanno gridato per l’ennesima volta sulla sponda asiatica del Bosforo, agitando cartelli con l’immagine delle sorelle private della vita. Molte di quelle storie risultano drammatiche e al tempo stesso simili, i loro aguzzini sono uomini frequentati nella travagliata esistenza quotidiana.