Il pugno duro di RoboCop, come viene definito il
presidente tunisino Kaïs Saïed, per l’incedere marziale, l’eloquio cadenzato,
l’intento giustizialista, ha steso in un colpo solo l’evanescente primo
ministro Mechichi, costretto alle dimissioni, e lo stesso Parlamento congelato
dal suo blitz. Polizia davanti all’organo istituzionale, deputati a spasso
senza immunità per un mese, applausi dai sostenitori che protestavano contro un
governo incapace e corrotto, mentre il partito Ennahda lancia un j’accuse a questo decisionismo
destabilizzante. Il suo vecchio leader al-Ghannuchi, attuale presidente proprio
del Parlamento, denuncia un colpo di mano contro la democrazia e la
Costituzione, cui invece si richiama Saïed, citando l’articolo 80 dei 149 che
la compongono. Ma quel capitolo, riferito a “misure eccezionali” da prendere in
caso di pericolo per la nazione può essere attivato dal Capo di Stato, coinvolgendo il premier, il reponsabile del Parlamento e informando il presidente della Corte Costituzionale. Peraltro dal gennaio 2014, entrata in vigore della nuova
Costituzione, quella Corte non è mai stata nominata. Lasciando un contraddittorio
danno in un processo normativo giudicato compromissorio seppure positivo. Un
esempio noto sul fronte dei diritti civili riguarda l’omosessualità che
l’attuale Codice penale tunisino considera un reato, spedendo in carcere chi la
professa. Ma chi in queste ore grida per le strade di Tunisi e anche di altre
località, accusa l’Esecutivo d’incapacità di gestione della pandemia da Covid,
che con l’ondata della variante Delta ha innalzato i decessi portandoli a
18.600. I timori dei contagi, che vanno di pari passo con gli scarsi mezzi per
tamponarli, soprattutto sul versante vaccinale, rappresenta la punta d’un
imbarazzo più profondo, di tipo economico, la grande incompiuta del Paese nonostante
la cosiddetta “Rivoluzione dei gelsomini”.
La cacciata del satrapo Ben Ali, l’illusione d’una
svolta islamista con le punte d’un salafismo che eliminava fisicamente gli
avversari laici, come nel caso degli omicidi Belaid e Brahmi, i colpi di coda
jihadisti con gli attentati al Museo del Bardo e il reclutamento di giovani
tunisini nelle file dello Stato Islamico. I distinguo compiuti proprio da
al-Ghannuchi che all’epoca sosteneva come quelle violenze si rivolgessero
contro “il processo di democratizzazione
della nazione che voleva distinguersi dal caos egiziano, libico, siriano”. Ma
come e più dei Paesi citati, un fattore bloccava e blocca l’emancipazione:
l’impossibilità di sviluppare un percorso economico autoctono. Negli anni in
cui i tunisini che vivevano delle prebende e del clanismo alimentato da Ben
Ali, hanno cercato riparo nel partito moderato e liberista Nedaa Tounes,
incarnato dal vecchiume fisico e mentale del presidente Essebsi che vivacchiava
senza studiare né lavorare per un sistema differente, la disoccupazione è
salita alle stelle coinvolgendo il 40% della popolazione giovanile, che rappresenta
un terzo del Paese. E quando RoboCop-Saïed,
che di mestiere non fa il poliziotto e ha un passato di docente proprio di
diritto Costituzionale, vinceva nel 2019 la contesa per la presidenza della
Repubblica, prevaleva anche col disperato voto di quei giovani che non vogliono
finire nella spirale della violenza jihadista e non hanno le migliaia di
dollari per i viaggi degli scafisti sempre meno sicuri, non solo per la tenuta
in mare, ma per l’accoglienza sulle coste italiane e le collocazioni in Europa.
Saïed vinse facendo meno dell’appoggio dei partiti, battendo il quotato tycoon Nabil Karoui, però come
quest’ultimo non ha dedicato alcuna attenzione al cancro che corrode la
Tunisia: un’economia asfittica. Prendersela con l’ultimo figurante posto a capo
del governo, è facile e maramaldo come cavalcare il malcontento. Cosa fa RoboCop per il suo popolo, oltre a
chiudere il Parlamento?
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