sabato 11 aprile 2020

L’Iran opta per la necessità economica


La Repubblica Islamica Iraniana, che ha smesso anche di pregare in moschea e che orienta in forma assolutamente privata il prossimo Ramadam (23 aprile-23 maggio), sceglie di riavviare da oggi le attività lavorative in quasi tutte le province. In tal senso s’è pronunciato il presidente Rohani a seguito d’un incontro ristretto con alcuni membri di governo. Anche il Majles riunito dopo oltre un mese di chiusura - sebbene mancassero all’appello oltre quaranta membri, fra cui il rappresentante del Parlamento Larijani - ha bocciato la proposta avanzata da un’ottantina di deputati di proseguire per un altro mese la chiusura preventiva d’ogni attività. E mentre da fonti mediche si teme un incremento della pandemia com’era accaduto a inizio marzo, e che secondo i dati ufficiali poi avrebbe rallentato contando sessantaseimila contagiati e quattromilacento vittime, lo Stato sembra anteporre la ragione economica alla salute pubblica. D’altro canto i dati ufficiali vengono contestati da fonti diverse. Gli oppositori del regime all’estero propongono cifre (oltre 23.000 vittime) che porterebbero l’Iran in cima al resoconto mondiale dei decessi, mentre più realistiche proiezioni offerte da chi studia il fenomeno pandemico globale tenderebbero a moltiplicare per tre i numeri riferiti dal governo. In ogni caso la paura del crollo economico, già motivo delle contestazioni sociali dell’ultimo biennio, conducono il ceto politico a scegliere la via dell’apertura. Visto che il denaro serve alle famiglie e allo Stato che finora ha investito un miliardo di dollari per arginare l’emergenza sanitaria e  sociale.
Soprattutto l’accresciuta disoccupazione, aumentata di cinque milioni di unità, preoccupa il governo. Un esempio: il fermo blocca tutta un’attività mercantile legata non solo e tanto ai famosi bazari, ma al loro indotto incentrato su commerci minuti, realizzati da nuclei familiari o singole persone, che al di là della piazza non hanno nessun altro introito e supporto. Per una nazione già pesantemente piegata dall’embargo occidentale, e ora carente anche negli scambi col gigantesco partner cinese, le prospettive diventano preoccupanti. A tal punto che la sua orgogliosa classe dirigente ha compiuto un passo che non si sarebbe mai sognata di fare: chiedere un prestito al demone del Fondo Monetario Internazionale. Un prestito da cinque miliardi di dollari che viene avanzato sessant’anni dopo l’emissione di un “credito di riserva” finora mai utilizzato per questo Paese. La domanda è correlata all’emergenza prodotta dalla pandemia, che secondo Rohani, non può vedere l’istituzione internazionale praticare discriminazioni geopolitiche. La nazione avversaria per eccellenza di Teheran, gli Stati Uniti, prima d’essere messa essa stessa in difficoltà dalla Sars Cov2, aveva offerto all’Iran aiuti umanitari. La risposta era stata secca: no grazie, piuttosto occorre revocare le sanzioni in una fase definita dal presidente-ayatollah “terrorismo economico-sanitario”. Per ora non s’è mosso nulla e ovviamente i focolai dell’epidemia non sono spenti. Riportare la gente per via può produrre conseguenze pericolose. Da oggi rimarrebbe chiusa soltanto Teheran, ma solo per un’altra settimana. Dopo liberi tutti.  

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