Yassıada, che gli antichi dominatori greci chiamavano Plati,
è quasi uno scoglio. Minùta, trecento metri per centocinquanta, emerge solo per
quarantasei dalla superficie marina. Appartiene al gruppo delle Isole dei
Principi nel Mar di Marmara. Si presta ad essere un luogo di esclusione e
reclusione, magari non solitario come la
Sant’Elena di Napoleone o le letterarie d’If e Alcatraz, ma già in epoca
bizantina ospitava esiliati come il patriarca armeno Narsete il Grande. Dopo la
sua prigionìa i bizantini continuarono a deportarvi nemici. Fra un passaggio e
l’altro, oltre che di epoche di domini, si giunse agli Ottomani e ai turchi
repubblicani, finché un politico che da quel partito unico proveniva, fondò un
nuovo gruppo chiamato Democratico. Quest’uomo, Adnan Menderes, divenne primo
ministro della Turchia nel 1950 e per dieci anni guidò una nazione arretrata
con metodi che oggi sarebbero definiti populisti. In questo superò lo stesso Kemal
Atatürk, rompendo l’inflessibile rigidità laica inseguita dall’inventore della
Turchia post ottomana. Pur non opponendosi all’occidentalizzazione del Paese,
aprì a quella tolleranza del culto esibito, ad esempio la preghiera, che il
padre della patria aveva vietato.
Menderes ripristinò rapporti con gli stati islamici
e aprì l’economia a un liberismo fino a quel momento sconosciuto in Anatolia,
rendendosi popolare per aver elargito parte dei suoi possedimenti agricoli a
piccoli proprietari. Un aspetto non lo differenziava affatto da Atatürk:
l’intolleranza verso le critiche che lo condussero a censurare la stampa,
incarcerare giornalisti, perseguitare oppositori. Vecchio vizio del potere non
solo turco, ma qui riprodotto e incrementato dall’aggiunta di nuove persecuzioni
xenofobe. Tristemente famoso il pogrom antiellenico di Istanbul, partito dal
rione di Pera, l’attuale Beyoğlu, e ampliato lungo le centralissime piazza
Taksim e İstiklal Caddesi dove i mercanti di quella comunità conservavano
storici esercizi. Dopo un decennio anche Menderes cadde vittima dell’intolleranza.
Non solo venne deposto da un golpe militare (nel 1960, il primo della triade
che asfissiò il Paese nei due decenni seguenti), ma l’anno successivo fu
addirittura impiccato. Il suo luogo di detenzione era proprio l’isola di
Yassıada. Quello di esecuzione l’isola di İmrali.
Stranezze dei ricorsi storici. Quest’ultima isola,
più consistente del quasi-scoglio di Yassıada, ha continuato a essere un
supercarcere speciale. Da trent’anni ospita uno dei più organici oppositori al
politico diventato l’uomo simbolo della Turchia islamista. Parliamo del leader
kurdo Öcalan opposto al presidente Erdoğan. Il primo è rinchiuso a İmrali dalla
data della rocambolesca cattura: 1999. I due, fino a cinque anni addietro,
avevano anche intavolato trattative per superare l’impasse d’un sanguinoso
scontro interno. Poi Erdoğan ha mutato linea e i contrasti sono ripresi armati
e feroci. Ieri ci sono stati due pronunciamenti: Öcalan tramite i suoi avvocati
ha chiesto ai militanti kurdi - che dallo scorso novembre praticano uno
sciopero della fame affinché cessi il suo isolamento - di
terminare la protesta. Il gesto estremo ha condotto alla morte otto attivisti-prigionieri
senza far mutare la posizione del governo. Il presidente turco ha reso
esecutivo quanto già annunciato: nominare Yassıada ‘isola della democrazia e
libertà’. Iniziativa meritoria, se ai pronunciamenti seguissero veri passi utili
ad ampliare queste categorie che in più epoche e con differenti governi la
Turchia ha negato e tuttora nega. Un segnale concreto sarebbe, modificare
l’essenza anche di İmrali. E liberare tanti detenuti d’opposizione, kurdi e
non, reclusi solo per le proprie idee oppure. Come accade a Öcalan, simbolo del
sogno di autodeterminazione d’un popolo.
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