lunedì 12 marzo 2018

Hambastagi, il partito di lotta che sogna il governo


La lotta è la soluzione dicono e si dicono ad Hambastagi, partito minuto ma combattivo di quel degenerato panorama politico afghano, impaludato in una guerra cronica partita da lontano: l’epoca dell’invasione sovietica, diventata conflitto civile e poi avvento talebano, per finire nell’invasione  targata “democrazia occidentale” a guida americana. Hambastagi nasce nel 2004, diversi suoi compagni, visto che s’orienta a sinistra nel segno di: laicità, diritti delle donne, rivendicazione d’un vero Stato democratico e liberazione dalla Nato, hanno avuto esperienze pregresse nei movimenti e partiti della sinistra maoista. Ovviamente si tratta dei più anziani, coloro che hanno praticato la resistenza ai sovietici accorsi in aiuto dei gruppi locali clonati da Mosca in epoca brežneviana. La generazione attuale, quella che ha fondato il partito nel 2004, chiamandolo della Solidarietà, è nata nei campi profughi pakistani. Se si tratta di donne, s’è formata attorno alla struttura dell’associazione Rawa (Revolutionary Association Women Afghanistan) che nelle varie epoche di un’attività avviata un quarantennio fa, ha sempre avuto un occhio speciale per questioni sociali e diritti, formando migliaia di attiviste coraggiose e preparatissime sotto ogni profilo. Una scuola-quadri al femminile invidiabilissima.
Eppure un errore il gruppo dirigente di Hambastagi lo fece. Proprio all’avvìo del suo rinnovato impegno, sicuramente periglioso e sempre rivolto alle masse. Pensò che quell’uomo, Hamid Karzai, che nel dicembre 2004 diventava presidente dopo aver diretto l’amministrazione transitoria del Paese, potesse rappresentare una svolta per la stessa popolazione afflitta da oltre un ventennio di lutti. Niente di più sbagliato. Il successo sui talib, frutto della massiccia invasione statunitense nota col termine di Enduring Freedom, a fine 2001 si sbarazzò d’un quinquennio di terrore ma pose le premesse per dolori e lutti altrettanto gravi. Complice mister Karzai, politico fantoccio, voluto e protetto dalla Casa Bianca, che presto rinnegò i promessi propositi di riforma e di contrasto ai Signori della guerra, riciclati durante i suoi mandati del 2004 e 2009. Non per ingenuità, ma per realismo politico, i dirigenti di Hambastagi avevano sperato nelle riforme popolari enunciate da Karzai: dovettero ricredersi. E da tempo le nuove leve, subentrate nella direzione del partito attorno al 2009, hanno elaborato un programma assai più tagliente. Il 33% di loro sono donne, e quella parità di genere, rivendicata come principio basilare dello statuto,  vede ulteriormente crescere le quote al femminile.
L’adesione militante al partito supera i 30.000 attivisti dislocati in quasi tutte le province afghane, anche quelle scomode, ad altissima presenza fondamentalista, dove i quadri di Hambastagi agiscono in incognita per ragioni d’incolumità. Ma il rapporto con la gente è stretto, basato su problemi concreti, che in quella realtà significano pane e lavoro, istruzione, difesa di diritti basilari. L’attuale presidente del partito, che è un medico con una faccia contadina che sarebbe piaciuta a Pasolini, ribadisce come l’organizzazione s’è rafforzata anche comprendendo e superando gli errori del passato: “Nessun ostracismo verso la vecchia guardia. C’impreziosiamo della loro esperienza, ma abbiamo tratto le dovute conclusioni sulle speranze mal riposte in un governo collaborazionista, che il partito ha preso a combattere apertamente da un decennio a questa parte anche nella versione successiva incarnata da Ghani. Ripetere gli errori diventa criminale, su questo non possiamo transigere” afferma con un sorriso. L’intervista è informale, ma ricca, ricchissima di analisi e umanità, perché una parte del gruppo dirigente incontrato in una Kabul blindata è comunque propositivo davanti a un orizzonte complesso e incistato sulla ripetizione di modelli corrotti e inconcludenti.
Un sistema d’occupazione ad libitum che palesa l’impossibilità di successo, ma resta funzionale al progetto geostrategico di Washington di controllare, dalle basi aeree costruite in quattordici anni, i cieli afghani e i confini di potenze regionali nemiche (Iran) e pseudo amiche (Pachistan), più il mastodonte cinese. Un piano che mira a conservare disgregazione e caos per non far nascere nulla. Niente hanno prodotto i sedici anni d’occupazione americana e Nato, neppure le vie di scorrimento della capitale ampliate e asfaltate dai sovietici, unici creatori di qualche infrastruttura come il gigantesco Silos, tuttora svettante come un simulacro del passato. L’Occidente ha solo donato fiumi di denaro a fondamentalisti e corrotti, con l’unica variante di ciò che si erge in ogni angolo della Kabul del potere: muraglie di cemento armato che soffocano la vista e stentano anche nella difesa di palazzi governativi e ambasciate. “La fine dell’occupazione è un punto centrale del nostro programma - afferma Selay Ghaffar, una delle leader di Hambastagi che fa tremare i warlords nei contraddittori televisivi e imperterrita controbatte a insulti e minacce -. Sappiamo che la strada del riscatto è lunga, però è l’unica da percorrere è rendere la gente del proprio sfruttamento”. “Il popolo non è attualmente pronto per una sorta di rivoluzione - aggiunge il responsabile del lavoro nelle province - ma odia truppe d’occupazione, governo e fondamentalisti. Noi partiamo da questi presupposti”.
“Molti parlano di rivoluzione, compresi gli ex mujaheddin diventati signori della guerra e i taliban; comunque discutendo con la popolazione ci accorgiamo che una certa accettazione di tali figure è dettata solo dalla paura e da mancanza di prospettive. Tanti fondamentalisti sono condannati nella testa delle persone. Perciò insistiamo sulla laicità degli orientamenti di vita, un presupposto importante per aggirare l’uso strumentale della fede praticato dall’estremismo islamista”. Continua a scavare la talpa di Hambastagi, ora che il governo gli ha ristretto spazi d’intervento pubblici, soprattutto le manifestazioni di strada per ragioni di sicurezza. Quest’ultima è un problema con cui ogni afghano deve fare i conti dall’alba al tramonto, ma la chiusura preventiva d’ogni spazio visibile è un disegno studiato dalla diarchia Ghani-Abdullah che teme linguaggio, metologia e contenuti della militanza solidale perché essi sono chiari, progressisti, fattivi e attrattivi. I politici di Hambastagi credono nella bella utopia d’una democrazia che in un simile panorama appare come un’araba fenice.  Ma come affermava Rosa Luxemburg l’alternativa al socialismo è la barbarie, e tutto ciò in Afghanistan si tocca con mano. Indomiti e realisti i “militanti solidali” muovono i loro passi con riserbo ed efficacia. La loro non è clandestinità, la sfiora. Seppure hanno nei cuori un progetto che ambisce alla luce perché è limpido come certe giornate di sole nel cielo di Kabul imperlato di aquiloni.

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