La legittimazione del dittatore tramite la blindatura
delle presidenziali, volta a tenere sigillato il Paese per i prossimi anni, ha
concluso il percorso. Com’era accaduto nel 2014, il generale golpista Abdel
Fattah al-Sisi riavrà il consenso popolare grazie alla diffusa consapevolezza
che tutto ciò serve alla nazione. Per settimane la martellante propaganda
mediatica di giornalisti asserviti e stelle dello spettacolo e dello sport
ossequiose, ha ripetuto: “Siamo con il
nostro Paese e con il nostro presidente”. Lui, presidente certamente rieletto,
non era più uno sconosciuto. Le incognite di quattro anni fa erano svanite dentro
certezze assolute: un sorriso pacioso che cela a stento un pugno di ferro e un
cuore ancor più duro, rivolti agli oppositori, ai comunicatori, alle migliori
menti d’Egitto di cui, la legge del comando che l’ispira, si fa beffa. Anzi,
chiunque obietti, dubiti, osi parlare viene visto con fastidio, isolato,
privato della libertà se non addirittura della vita. Con questi presupposti ottenere
il pieno del consenso e bissare il successone di quattro anni addietro, diventa
semplice. Chi non si convinceva con la propaganda paternalista sull’uomo giusto
che guida la nazione per il bene del popolo, lo capiva col clima intimidatorio
su cui neppure gli osservatori internazionali impegnati in alcuni seggi campione
dei 13.700 predisposti hanno potuto tacere. Dunque, Sisi presidente col 92% dei consensi. E’ lui il partner
che l’Occidente vuol mostrare nei summit mediorientali, che servirà nell’asse
d’acciaio stabilito con l’uomo implacabile dell’instabile terra libica: il
generale Haftar. Sisi è il leader che non dispiace a Israele e che il sovrano
di fatto della dinastia Saud, l’iper realista Bin Salman, condurrà per mano
attraverso i propri piani finanziari e geopolitici regionali.
Chi è interessato alle cifre (che saranno certe,
forse, il 2 aprile) può confrontarle con quelle delle ultime tre elezioni: nel
2005 Mubarak vinse contro Abdel Aziz Nour con l’88% dei consensi, votava il 23%
degli iscritti. Nel 2012 Morsi prevalse su Shafiq col 51.7% e il 52% dei
partecipanti, mentre nel 2014 Sisi vinse contro Sabahi col 97% e votò il 47% dei
chiamati alle urne, in realtà fu il 15%. Però l’operazione camuffamento, che
aveva prolungato le consultazioni proprio per la scarsa affluenza a seguito del
boicottaggio lanciato dalla Fratellanza Musulmana, raggiunse lo scopo prefisso.
Principalmente si cercava un concorrente morbido che accreditasse il ‘confronto
democratico’ da inchiodare su una percentuale di consenso infinitesimale. Allora
fu il post nasseriano Sabahi, stavolta si è trattato del liberal-sissiano Moussa.
Un boicottaggio non solo dell’estinta, almeno agli occhi pubblici, Brotherhood
c’è stato anche stavolta. L’aveva indicato a gran voce Aboul Fotouh, e pur non
scandendolo apertamente il generale Anan, entrambi esclusi dal confronto con
motivazioni pretestuose. Conoscere le percentuali reali di voto e d’astensione
da quelle parti è sempre approssimativo, per la palese opera d’occultamento dei
dati compiuta dal ministero dell’Interno che umilia il ruolo indipendente del
Comitato elettorale. Di fatto viene ribadita quella spaccatura esistente dal
2011 che contrappone la lobby militare, e chi si stringe attorno a essa per
interesse, adesione ideale, paura, e gli oppositori al regime dei raìs,
incarnata dalla fazione islamica della Fratellanza da tempo fuorilegge e
perseguitata e dagli oppositori laici, essi stessi perseguitati. Una
polarizzazione deleteria per gli interessi dei più deboli, ma di fatto
esistente.
Per tamponare l’astensione la giornata di ieri ha visto all’azione
gli esattori di multe (500 lire egiziane, cioè 28 dollari) per chi non s’era
recato alle urne. Sono bastate minacce e azioni per ‘addomesticare’ parecchi
elettori dell’ultim’ora che fanno salire il quorum su parametri accettabili,
tanto per salvare la faccia del consenso al nuovo faraone. Non erano servite a
molto neppure le sbandierate presenze dei primi due giorni che avevano visto
susseguirsi gli inviti al voto del premier di comodo Ismail e la presenza al
seggio delle due maggiori autorità confessionali entrambe favorevoli al regime:
il grande imam di Al-Azhar El Tayeb e il papa della chiesa copta Tawadros II.
Anche nel terzo giorno del voto, svoltosi in totale assenza di atti violenti (dopo
l’attentato con autobomba compiuto sabato scorso ad Alessandria e costato la
vita a due poliziotti) l’informazione
televisiva ha ripetuto il mantra del “voto libero e giusto”. Altra nota di
colore per invogliare la cittadinanza ai seggi è stata la distribuzione di cibo,
messo a disposizione da alcune catene alimentari, come sostegno materiale allo
stress dell’attesa per deporre la scheda nell’urna. Inflessibili i sostenitori
della Fratellanza che ideologicamente hanno accettato l’indicazione del
boicottaggio e delle contromisure sanzionatorie. Il loro pensiero andava
all’unico presidente frutto d’una reale consultazione che l’Egitto
contemporaneo ha conosciuto, quel criticabile Mohamad Morsi che da anni
languisce in galera. Alla stregua di tanti suoi colleghi di partito ma,
riferiscono fonti vicine alla Confraternita, malmesso per ragioni di salute e a
rischio vita proprio per il carcere duro cui è sottoposto.
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