Per come s’è avviata l’elezione
presidenziale del prossimo 26 marzo che propone agli egiziani la riconferma
dell’ennesimo raìs in una versione quasi faraonica, Abdel al-Sisi sembra in
linea con quanto accade in un certo mondo. Il presidente uscente ha fatto
piazza pulita di qualsiasi concorrente accettando alla fine, così per dare una
parvenza di sfida al suo monologo, un unico avversario: Mostafa Moussa, della
formazione al-Ghad. Uomo ben diverso dal fondatore di questo partito, Ayman
Nour, che era finito in galera all’epoca di Mubarak. Moussa, invece, ha
trasformato il raggruppamento in un’appendice di sostegno allo stesso Sisi, e
gli farà da cerimoniere in quella farsa della democrazia che ha depennato quattro
candidati veri: l’ex mubarakiano Shafiq, l’islamico moderato Fotouh, il
generale Anan, l’avvocato dei diritti Khaled Ali. Tutti azzittiti con denunce,
galera o avvertimenti a desistere dalla folle idea di contrapporsi al predestinato.
Eppure, nel panorama d’un avvìo di Millennio che propone e impone presidenti-zar,
sultani, imperatori, ruoli che il secolo breve e rivoluzionario aveva
seppellito, il faraone del Cairo risulta in fondo il più debole fra i capi di
Stato dall’autorevolezza autoritaria. Infiacchito da un tempo che in Egitto appare
bloccato ma negli apparati del potere corre veloce. E indebolito pure dalla
lobby che l’aveva scelto come sua icona.
Sicurezza ed economia, su cui si misura il programma dell’Egitto di
Sisi, hanno temi collegati: repressione e subordinazione della progettualità. Su
questo il presidente uscente si gioca non un’elezione scontata, ma il mantenimento
d’un incarico che per tradizione della divisa è destinato a esser lungo. Così è
stato per Mubarak, mentre per Nasser e Sadat intervenne la crudeltà del
destino. Sisi potrebbe fare ciò che gli attuali uomini soli al comando fanno:
protrarsi la permanenza al potere cambiando regole che dovrebbero essere
inviolabili (ma per loro non lo sono). Con l’aria che tira la Costituzione
egiziana può certamente venire ritoccata a sostegno dei desideri presidenziali,
bisognerà capire se il sempiterno Consiglio Supremo delle Forze Armate punterà ancora
sul distaccato aplomb del generale e sul suo staff. Proprio la vicenda
dell’omicidio Regeni, mostrava fra le righe le smanie d’un potere criminale
(Servizi, polizie locali, gang paramilitari e spie a libro paga) che pur
rientrando nel grande clima repressivo predisposto e cavalcato da Sisi, attuava
iniziative delinquenziali talmente zelanti da creare qualche problema ai
vertici statali. Problemi, non imbarazzi, perché comunque l’apparato ha fatto
quadrato attorno a presidente, ministro degli Interni e degli Esteri e tutti
hanno deriso le iniziali pretese di verità del governo italiano e le successive
inchieste del procuratore Pignatone. Con lo scorno per i familiari del
ricercatore, colpiti doppiamente.
Seppellito il povero Regeni, celati i crimini
interni e i possibili intrecci internazionali che coinvolgevano accademici e
Intelligence britannica, resta il realismo politico posto come cavallo di
battaglia del presidente-generale. Sul tema della sicurezza lui paga l’instabilità
in alcune aree, il Sinai dov’è cronica la presenza jihadista con gruppi antichi
(Ansar e Jund al-Islam) più il marchio Islamic State of Sinai. In alcune città,
Cairo compresa, dove agisce in totale copertura clandestina un armatismo staccatosi dalla repressa Fratellanza
Musulmana. Una sua sigla è Hassm, non pratica lo stragismo, agisce colpendo
uomini del regime fra i militari e fra i burocati. Non se ne conosce la
consistenza, ma sia le origini tutte politiche sia la natura sociale delle
contraddizioni che coglie possono impensierire i palazzi del potere. E’ il
sociale il grande buco nero dei quattro anni di gestione Sisi. Se Morsi venne
messo alla berlina dopo undici mesi di governo per non essere riuscito ad
affrontare almeno uno dei cento problemi urgenti che assillano la vita sociale
del Paese, l’attuale amministrazione non salva neppure la faccia. I dati sono
aculei conficcati nelle pelle d’una popolazione diventata più povera, il 30%
sul territorio nazionale significa circa trenta milioni di egiziani, che
nell’ultimo anno, oltre a non trovare prospettive d’occupazione si son visti
tagliare i tradizionali sussidi statali su carburante e viveri. Le misure
riguardano gli strati più poveri, ma questa fascia s’è appunto ampliata.
Il liberismo, sostenuto con protervia dall’attuale regime, ha proseguito il suo corso contro l’esistenza di
milioni di persone che s’arrangiano con commerci, lavoretti, assai peggio d’un
tirare a campare in stile mediterraneo. Ne traggono vantaggio tycoon ricchissimi
e noti, compreso Shafiq che, da tempo fuori dal giro delle Forze Armate, fa affari
per sé e compari vecchi e nuovi. Si rafforza lo statalismo privatizzato con cui
strutture dell’esercito controllano appalti d’ogni tipo: edilizia pubblica e privata,
trasporti, servizi, commercio, turismo. Gli apparati militari continuano ad
avere le mani ovunque, per oltre la metà del comunque non splendido Pil
nazionale. I grandiosi progetti con cui Sisi vuole abbagliare gli elettori e
stupire il Medio Oriente: il secondo canale di Suez, la creazione d’una nuova
capitale in un’area posta fra il Cairo e il Mar Rosso (negli anni Ottanta
Mubarak aveva portato a Helipolis, un sobborgo del Cairo, alcune sedi
amministrative) presumono commesse per le aziende controllate dai militari Ma l’affarone
attorno a cui girano gli interessi nazionali, per il quale i rapporti
diplomatici fra Roma e Il Cairo sono passati sul cadavere di Regeni, si chiama
Zohr. E’ la maggiore riserva di gas del Mediterraneo, presente nella zona economica
esclusiva che compete all’Egitto a 110 miglia marine da Port Said; offre un
potenziale stimato in 850 miliardi di metri cubi e ha previsto 12 miliardi
d’investimenti inziali. E’ stata scoperta nel 2015 dall’Eni, che ne è coinvolto
per il business derivante della propria tecnologia estrattiva. L’Egitto ha
stipulato recenti accordi, limitati però a sondaggi minori, anche con la
britannica Bp e la russa Rosneft.
I vertici del cane a sei zampe, hanno spinto sugli
inquilini passati di Palazzo Chigi perché attriti internazionali non
inficiassero il succulento accordo. Lo faranno anche con la nuova premiership,
d’ogni colore. Quel che resta nell’Egitto che s’appresta al voto sono le spese
militari sempre elevatissime (cinque miliardi per le forniture degli aerei da
guerra francesi, i chiacchierati Rafale, che l’India tempo addietro
respingeva). E l’insostenibile cortina di ferro rivolta a giornalisti stranieri
e a quelli locali, perseguitati come gli attivisti d’opposizione e gli stessi
blogger sin dal golpe del luglio 2013 col successivo massacro della moschea Rabaa
al-Adaweya. Una società poliziesca che ha visto cancellare spazi d’incontro e
dibattito ben prima che subentrasse l’alibi degli attentati, che pure sono iniziati
dal 2014 e sono cresciuti. Alle migliaia di arresti lanciati contro i vertici della
Brotherhood e poi sui suoi militanti, s’è passati a incarcerare sindacalisti,
compresi gli oppositori morbidi, nasseriani e liberali. Il silenzio e la paura
sono tornati come e più dei tempi di Mubarak e libera mano ha il Mukhabarat che
si serve di prezzolati baltagheyah. Sono costoro gli scherani che sequestrano,
torturano, uccidono e fanno svanire nel nulla i corpi di centinaia di persone.
Sparizioni e omicidi su cui il governo fa lo gnorri, sostenendo, come più volte
ha dichiarato Sisi su Regeni, che “gli
autori del crimine (cioè gli uomini degli apparati che lui ha incaricato) verranno individuati e puniti”. Quest’uomo
è l’ennesimo satrapo affacciato su un Medio Oriente dissanguato da criminali e
dai loro mefitici interessi mascherati da ragioni di Stato.
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