Riconoscere uno Stato Palestinese, come intende fare domani all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il Regno Unito, assieme a Canada e Australia, dopo cento e otto anni dalla Dichiarazione di Balfour, ma soprattutto dall’avvìo dello sterminio dei gazawi che dura da quasi due anni, rappresenta l’ennesima incongruenza d’una geopolitica occidentale incentrata sull’ipocrisia. Meglio tardi che mai, sentenzieranno i Soloni dei passi piccini piccini che girano in tondo su sé stessi confermando un’assoluta inutilità. Ma una realtà schiacciata e scacciata, già con la Nakba del 1948, come quella della Palestina storica che proprio i governi britannici sacrificavano alla nascita di Israele, contrapposta alla millenaria vita dei locali arabi e beduini, è un tarato controsenso tenuto in vita per decenni. Durante i quali lo Stato sionista, allora a maggioranza laburista, faceva di tutto per affermare la sua identità etnica a discapito di altre comunità; missione proseguita dall’epoca dei kibbutz a quella d’una nazione sempre più centralista e militarista. Altro che utopia collettiva… Insieme a colleghi europei, il leader britannico Starmer parla di “speranza di pace a una soluzione di due Stati”, come se tutto ciò ch’è accaduto dalla firma degli Accordi di Oslo (1993) in poi non si fosse mai verificato. Gli stessi Ilan Pappé, storico, e Eyal Weizman, architetto, quest’ultimo con doppia cittadinanza britannico-israeliana, da tempo testimoniano la finalità di pulizia etnica e le strategie d’occupazione attraverso le colonie nel presunto territorio destinato ai palestinesi della Cisgiordania. Prigionieri anch’essi in una casa che non è mai stata loro, perché continuamente minacciata da Israel Defence Forces e da ebrei armati. Gli intenti della politica d’ogni governo di Tel Aviv, laburista, Likud, sino all’oltranzismo ebraico delle più recenti formazioni presenti nella Knesset, da anni riduce qualunque capacità di vita ordinaria per i palestinesi, fino ad attentarne l’esistenza interrompendola con azioni armate, ancor più se si verificano rivolte - le Intifade del 1987 e del 2000 - o singole iniziative di ribellione personale anche omicide.
L’alibi è la ‘sicurezza’ d’Israele e della sua gente, che però continuamente minaccia la vita della comunità araba pur nei territori assegnati, che si riducono sempre più. Per i 730 chilometri del Muro voluto da Sharon (2003), per continui insediamenti di coloni provenienti da cento Paesi del mondo che nulla hanno a che vedere col Medioriente, rivendicando un diritto atavico che è pura promozione della sopraffazione e sostituzione etnica. In queste ore non un membro di Hamas ma Chris Doyle, direttore del Consiglio per la comprensione arabo-britannica (CAABU), afferma: “Molti palestinesi avrebbero voluto celebrare questo momento simbolico, ma non possono. La realtà è che il riconoscimento non porrà fine ai bombardamenti, alla carestia, al genocidio né al sistema di apartheid che i palestinesi stanno sopportando". Perché la soluzione finale con cui Netanyahu e Trump puntano a svuotare la Striscia, deportare il milione e mezzo di cittadini rimasti e comunque sfollati, affamati, sfibrati da malattie endemiche che li possono cadaverizzare da un giorno all’altro, accanto a chi è fucilato da terra e dall’aria, è il futuro previsto per tale Stato fantasma. La cui controfigura è la West Bank ebreizzata dai coloni che raggiungono il milione e non si fermano, secondo la logica di togliere spazio al nemico, soffocarlo in dimensioni sempre più esigue, stritolarlo, farlo impazzire. Mentre le risoluzioni di un’entità, purtroppo decotta qual è l’Onu, vagano vuote nel Palazzo di Vetro, perché inapplicate, visto che da Oltreoceano non si vuole farle applicare. E non solo per il famigerato ‘diritto di veto’ dei Grandi, mai cancellato nell’organismo internazionale, ma perché la politica americana, Democratica o Repubblicana e ora Maga, ha sempre voluto e imposto questo. E vuole eternizzarlo.
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