Fuori Alaa

Giunge
con estremo ritardo, ma è bene che sia arrivata, la liberazione
d’un attivista storico d’Egitto: il quarantatreenne Alaa Abd El-Fattah,
imprigionato nel 2013 a seguito del golpe bianco di Al Sisi, e poi nuovamente
nel 2019, dopo una paradossale scarcerazione che nelle settimane seguenti gli
rinnovava una pena di cinque anni per aver diffuso “notizie false” sui social
media. Lo fanno uscire di cella il suo persecutore presidente egiziano, che
addirittura lo grazia assieme ad altri detenuti politici, e il premier
britannico Starmer fino a questo momento accogliente solo a parole delle
suppliche della madre di Alaa, la docente universitaria Laila Soueif. La quale
s’era spesa tantissimo per il rilascio del figlio che ha cittadinanza anche
britannica, da lì la richiesta di coinvolgimento di Downing Street.
Laila coi suoi settant’anni oggi sembra una novantenne: l’hanno piegata le pene
patite e le lotte intraprese a favore del primogenito. In questi anni ha
praticato essa stessa debilitanti scioperi della fame nonostante condizioni sempre
più precarie di salute. Le testimonianze delle altre figlie, di amici, le
stesse immagini della donna confermano come la professoressa negli ultimi
cinque anni sia invecchiata per le sofferenze fisiche e morali subìte dalla
famiglia. Perché adesso questa grazia? cosa significa? Da un lato c’è da
constatare che Alaa ha quasi scontato per intero l’ennesima condanna,
dall’altro c’è l’attuale scelta del governo inglese di esporsi a favore d’un
riconoscimento dello Stato Palestinese. Mentre il regime del Cairo segue i
dubbi sollevati da Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita per i recenti attacchi
aerei di Israeli Air Force al Qatar, un esplicito schiaffo alle stesse
petromonarchie propense a stabilire buoni rapporti con Tel Aviv attraverso gli
“Accordi di Abramo”. Ora quest’ultime compiono un passo indietro di fronte
all’aggressiva strafottenza dell’esecutivo Netanyahu, il cui isolamento
diplomatico è globale. Con l’odierno pronunciamento all’Assemblea delle Nazioni
Unite anche di Regno Unito, Australia e Canada, la stragrande maggioranza dei
Paesi rappresentati nel Palazzo di Vetro (151 su 193, l’Italia resta nel guado
di un “non ora” voluto da una Meloni
filo Maga) chiede quello Stato Palestinese che Israele nega
praticando un genocidio strisciante a Gaza e l’occupazione militare e coloniale
della Cisgiordania. Comunque l’uomo della repressione interna in Egitto non è
cambiato. La sua è l’ennesima mossa buonista per conservare un profilo
passabile da mediatore internazionale col quale riesce a conservare uno scranno
nei tavoli di trattativa. Lì la partita col mondo islamico la gioca il turco
Erdoğan e i rapporti con l’Occidente statunitense li tiene il saudita bin
Salman. Sisi sorride e grazia un detenuto impossibile da tenere ai ferri pure
per ragioni di passaporto, la svolta potrebbe offrirla liberando migliaia di
oppositori di cittadinanza solo egiziana. Non lo farà.
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