martedì 26 novembre 2024

Pakistan infuocato dal Belucistan a Islamabad

 


Non si placa l’ira dei sostenitori dell’ex premier pakistano Imran Khan, recluso da un anno e mezzo e incriminato nientemeno che di centocinquanta reati. Il suo partito, Tehreek-e-Insaf (Pti), aveva organizzato domenica l’ennesima marcia di protesta per chiederne la liberazione, s’è trovato a bloccargli l’accesso al centro della capitale polizia statale e privata e pure l’esercito. Finora si contano quattro vittime fra queste forze, ma può innescarsi un clima decisamente peggiore. Già nei mesi passati cortei e scontri avevano messo a ferro e fuoco i quartieri centrali di Islamabad, provocando vittime fra manifestanti e polizia. Stavolta il ministro dell’Interno Mohsin Naqvi ha deciso di bloccare i manifestanti lungo le autostrade d’accesso alla città, predisponendo da lunedì l’arresto di migliaia di cittadini. La tivù locale ne dichiara quattromila. Naqvi e l’attuale capo dell’esecutivo Shehbaz Sharif sono visti come fumo negli occhi dai sostenitori del Pti. Quest’ultimo è definito “un usurpatore” dai militanti ridiscesi in piazza come quando avevano denunciato brogli nelle elezioni vinte di misura dalla Lega Musulmana N di cui Shehbaz è esponente, assieme al chiacchierato e pluricondannato fratello Nawaz. Le migliaia di candelotti lacrimogeni usati ieri, che hanno intossicato anche numerosi agenti, continueranno a stabilire la cortina posta a protezione del Parlamento e dell’Alta Corte di Giustizia, istituzioni contestate cui miravano le altrettanto numerose unità di cittadini propense a passare dalla protesta alla rivolta. Sebbene nel Pti ci siano due tendenze: una prima intransigente sostenuta dalla moglie di Khan che richiede la scarcerazione del consorte e di altri membri del partito e la riammissione nel mandato interrotto nell’aprile 2023. Una seconda, d’un altro pezzo della leadership, è propensa ad accettare il tavolo di trattative promosso in queste ore da Naqvi. 

 

Dunque contestazione spaccata? E’ presto per dirlo. La mobilitazione sta proseguendo con una tensione altissima, anche perché da stamane il fronte di protesta accusa le forze dell’ordine dell’uccisione di due attivisti e del ferimento di parecchi altri, notizie non diffuse dai media ufficiali a favore delle sole morti degli agenti. Chi era in strada ha riversato in rete filmati che, accanto al presunto “alleggerimento coi lacrimogeni”, accusano polizia e corpo paramilitare dei Ranger dell’uso di armi da fuoco con cui sono stati colpiti bersagli umani mobili e fissi. Per Shehbaz: ”La protesta non era pacifica, c’è un gruppo anarchico (sic) che cerca spargimenti di sangue”; secondo Bhutto-Zardari, presidente del Partito Popolare Pakistano:gli incidenti di queste ore sono terrorismo puro perché Ranger e personale di polizia che hanno abbracciato il martirio erano figli coraggiosi della nazione”. Insomma questi leader puntano a ribadire la spaccatura nazionale senza neppure tentare l’opzione del dialogo lanciata dal ministro dell’Interno. Acuire la tensione non rappresenta un passo favorevole all’attuale governo che solo una settimana fa ha lanciato guerra aperta ai gruppi fondamentalisti che fomentano attentati nella regione del Belucistan, sostenendo il reiterato desiderio di autonomia, e in alcuni casi separazione, di cellule locali come l’Esercito di Liberazione Beluco. A meno che la lunga mano dei vertici delle Forze Armate, sempre presenti e interferenti nella politica pakistana, non stia spingendo per l’attuazione di uno scontro a più livelli che giustifichi una militarizzazione della scena con ampliamento della repressione anche sugli interventi critici di partiti, associazioni e cittadini. Questa è la tesi dei Tehreek-e-Insaf (Pti) che già in occasione della sfiducia e della caduta di Khan parlarono di un’operazione pilotata dalla lobby militare, con cui comunque in precedenza proprio Khan aveva avuto buoni rapporti, e dell’amministrazione statunitense.

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