lunedì 4 novembre 2024

Harris-Trump, la forma e la sostanza

 


Mentre impazza il count-down mediatico - è bene chiamarlo così all’americana, come ai tempi della conquista lunare prodromo del controllo global-tecno-militare riversato sul Terzo Millennio, altro che “grande balzo per l’umanità” - su chi sarà il 47° presidente statunitense e sui rischi conseguenti d’un nuovo successo del miliardario criminale, nonché della novità rivoluzionaria della prima donna alla Casa Bianca, quell’angolo di mondo arso e riarso che è il Medioriente ha occhi socchiusi e scarsi dubbi. Non solo i sopravvissuti di Gaza, che pure possono domandarsi quanto tempo gli resta per non serrarli definitivamente, bensì gli altri,  attori e comparse, per nulla immuni dalla diffusa cenere. L’elenco delle scelte trumpiane nel quadriennio della sua presidenza (2016-2020) sono note: sulla contrapposizione israelo-palestinese il suo Studio Ovale le studiò tutte per favorire Tel Aviv, a partire da qualificare la città santissima di Gerusalemme quale capitale dello Stato ebraico e insediarvi l’ambasciata Usa, in barba all’occupazione in atto dal 1967, alle molteplici risoluzioni Onu, all’area orientale della città abitata da arabi. Quindi: sovranità israeliana sulle siriane Alture del Golan, occupate anch’esse da quasi un sessantennio; introduzione dei cosiddetti “Accordi di Abramo” con Emirati Arabi, Bahrein, Marocco, punta dell’iceberg d’un patto per normalizzare il ruolo coloniale d’Israele con una fetta del mondo arabo. A tutto danno dei palestinesi sempre più soffocati, braccati, seviziati, assassinati in quei lembi di terra riconosciutagli da altri leader, l’americano Clinton e l’israeliano Rabin, accoglienti e ossequiosi prima che con Arafat con l’ipotesi  d’una patria palestinese. Eppure erano insidiosi quegli Accordi stilati a Oslo, scritti sull’acqua e presto naufragati, non solo perché ignoravano rifugiati e il loro diritto al ritorno, ma risultavano intossicati da colonie e coloni ebraici più pericolosi dello stesso Israel Defence Forces nel soffocare l’esistenza palestinese. 

 

Trump, l’autarchico e sedicente non guerrafondaio, stravede per gli autocrati e per i cuori di pietra alla Netanyahu, perciò una sua rielezione è jattura pura per chi deve misurarsi con la tremenda vendetta che la Knesset avalla dietro il suo duce. L’altro Israele di fatto è impotente e comunque non sa che farsene dei palestinesi se non spingerli fuori dalla terra un tempo voluta e ora scippata a chi non deve avere il diritto di viverci. Agli occhi di questo popolo senza casa che vede annerito ogni futuro, l’altra America, democratica e sorridente come Kamala Harris, appare egualmente infida. E’ lei, è il partito che ha espresso Biden ad aver permesso tredici mesi di carneficina seguìti alla strage di Hamas, chiamando terroristi questi, militari gli apparati di Tsahal. Uno scontro impari che accanto alle vittime prodotte coi due interventi, ridisegna il Medioriente prossimo venturo. Con una Striscia di Gaza rasa al suolo e preda d’un ritorno ebraico, un Libano triturato sotto bombe ad alto potenziale tecnologico e mantenuto sotto tiro, una Cisgiordania immersa nella spirale sgombero-insediamento della diatriba palestinese-colono incentivata dal governo di Tel Aviv e accreditata da Washington quale azione estrema ma necessaria. Questo lungo anno di stragi ha avuto il partenariato dei Democratici d’America, non solo come conseguenza di ciò che tutti i governi degli Stati Uniti hanno sempre fatto dalla nascita dello Stato ebraico, ma uscito Trump dalla Casa Bianca nonno Biden ha dato di più, e la sorridente Kamala l’accompagnava nell’infausta orgia delle spedizioni dei gioielli omicidi di Boeing, General Dynamics, Lockheed Martin. “Affari” sostiene il mondo finanziario che ha il cuore a salvadanaio e nessuna morale. Chissà se gli affabulatori della geopolitica televisiva, che nelle prossime ore ci spiegheranno non tanto le palesi differenze fra l’omaccione ossigenato e la ridanciana lady, quanto le finissime diversità sulla foreign policy dei due, convergeranno su quanto risulta esplicito: il presunto disimpegno americano in Medioriente resta una favola. Israele, la sua quinta colonna, è il perno d’un imperialismo con alleanze miste nel mondo arabo e non solo. Al di là di chi alloggerà nello Studio Ovale.

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