mercoledì 21 agosto 2024

Bangla, il sogno della gioventù ribelle

 


Nei pronunciamenti pubblici, nelle interviste che hanno iniziato a concedere a diversi media internazionali i ‘ragazzi anti Hasina’ parlano di “cancellazione del sistema fascista di governo” e dell’immancabile “rivoluzione”. Concetti fortemente ideologici in un sistema internazionale che umilia qualsiasi riferimento alla mutazione dello stato di cose presenti. Eppure loro la vivono così la cacciata della dittatrice, quattro mandati consecutivi, più l’esecutivo degli anni Novanta per eredità politica, quella del suo papà e padre della patria Mujibur Rahman. Il più loquace è Asif Mahmud, attuale Ministro dello sport nel governo di transizione guidato dall’ottantaquattrenne già Premio Nobel Muhammad Yunus, indicato dai rivoltosi, accettato dai partiti storici, compreso l’ex governativo Amawi League e il nazionalista d’opposizione purché acquietasse le fiammate di piazza durate due mesi. Il neo premier è intervenuto a inizio settimana prospettando un impegno per ricomporre il Paese, spaccato proprio dalla polarizzazione di Sheikh Hasina. Non gli sarà facile convincere i protetti dall’ex primadonna riparata nell’India di Modi. Poche settimane prima era lei a definire teppisti gli universitari ribelli contro il sistema delle quote che inseriva automaticamente negli apparati statali gli epigoni della lotta per l’indipendenza del 1971. Accanto al privilegio che si faceva beffa di merito e capacità, la lady di ferro insinuava il presunto antipatriottismo dei contestatori. Li definiva amici dei pakistani, una bestemmia per ogni bengladese. Scarno nel fisico che potrebbe essere quello d’un maratoneta o d’un saltatore in alto il ministro Mahmud, forse non è così esperto di specialità atletiche, ma di giovani studenti sì. Viene dal campus di Dacca dove ha rintuzzato le aggressioni della League Chhatra, l’organismo giovanile dell’ex partito di governo scagliato paramilitarmente contro i rivoltosi.

 

Con la creazione, assieme ai suoi compagni, del ‘Movimento Studenti Antidiscriminazione’ ha espresso i presupposti per non disperdere la potenzialità dell’agitazione e convogliarla politicamente fuori dalla sfera dei partiti tradizionali, interessati alla gestione del potere, non alla trasformazione della società. E’ per cancellare il vuoto di futuro, ridurre lo spettro della disoccupazione che coinvolge circa venti milioni di giovani fra i 15 e i 25 che non studiano né lavorano e angoscia gli stessi suoi colleghi che dopo la laurea sono costretti (ma solo se la famiglia può pagargli la fuga) a migrare all’estero, che Mahmud e altri hanno formato lo spontaneo fronte anti regime chiedendo al ‘banchiere dei poveri’ di presiederlo. Una scommessa che sa di sogni paritari, emancipatori, una rivoluzione senza dittatura e contro i dittatori. Con Nahid Islam, che ha assunto la responsabilità dei Ministeri di poste, telecomunicazioni e informatica, Asif sostiene che si faranno da parte appena il governo provvisorio avrà raggiunto i primi obiettivi. Intanto è fra i più fotografati dei diciassette membri dell’Esecutivo-salva nazione. Eppure la notizia di questi giorni che il movimento pensi a trasformarsi in partito con cui affrontare in futuro i colossi nazionali, rimasti in questa fase a osservare gli eventi, confligge con gli intenti minimalisti del neo ministro dello sport. Certo è che la gioventù studentesca ribadisce i valori secolari e laici, ponendosi in netta antitesi con quell’eminenza grigia della politica interna che è Jamaat-e Islami. Partito filo-pachistano di per sé inviso ai bengladesi ma non al ceto storico. Proprio nei mesi scorsi prima delle elezioni vinte da Hasina, quest’ultima aveva ricevuto richieste di collaborazione dagli esponenti di quella formazione, decisamente minoritaria, comunque assai attiva. Li aveva ricevuti senza però stabilire accordi. Un gruppo spregiudicato visto che profferte simili le aveva rivolte anche al Partito nazionalista. Chiunque avesse vinto le elezioni era nel mirino degli islamisti del Jamaat, loro sì profondamente ideologici nella diffusione d’un fanatico wahhabismo.

domenica 18 agosto 2024

Turchia, ennesima aggressione in Parlamento

 


Non sappiamo quanto Alpay Özalan, ex calciatore del blasonato Beșiktaș di Istanbul, con cui una trentina d’anni addietro vinse uno scudetto e due Coppe di Turchia, facesse valere con colpi proibiti la sua stazza di corpulento difensore. Sicuramente da parlamentare del gruppo di maggioranza (Akp) la teorica sportività ha ceduto il passo al più belluino dei sentimenti: aggredire il collega dell’opposizione Ahmet Şik del Partito dei lavoratori che interveniva nel Meclisi protestando per l’espulsione dell’attivista e deputato Can Atalay. Quest’ultimo era stato condannato a diciotto anni di reclusione per le proteste del Gezi park (maggio-giugno 2013) e dal 2022 sta scontando la pena. Lo scorso anno comunque era stato eletto nella Grande assemblea turca e la Corte Costituzionale giudicava corretta la scelta invitando la magistratura a scarcerarlo per fargli svolgere attività politica. La maggioranza governativa (Partito della Giustizia e dello Sviluppo, Partito nazionalista e altri raggruppamenti minori) ha votato l’espulsione di Atalay dal Parlamento. Da qui la protesta del deputato Şik che mentre interveniva dal podio era raggiunto da Özalan, il quale con fare da picchiatore l’ha afferrato per la gola e sbatacchiato a terra. L’aggredito pur cercando di difendersi dal corpulento membro dell’Akp deve aver sbattuto, poiché i video sul triste episodio mostrano anche macchie di sangue in terra che gli addetti alla sala hanno immediatamente provveduto ad asciugare Nel frattempo dai banchi di governo e opposizione molti onorevoli si sono concentrati nel punto dell’assalto, il parapiglia è durato a lungo prima di venire sedato. Non è la prima volta che nel Meclisi si verificano scene da bazar, e sempre deputati dell’Akp si ritrovano nel ruolo di assalitori. 

 

All’intolleranza verso gli avversari, ancor più se di sinistra, che caratterizza i comportamenti di soggetti che ben poco hanno di decoroso, s’accompagna una divulgazione dello scontro come nei tempi più bui della Turchia messa a ferro e fuoco dai ‘Lupi grigi’, la componente estremista del Partito nazionalista. Fra l’altro alla stregua di quel che accade in molti stadi e a tanti club, non solo gli ultras delle curve ma gli stessi calciatori mostrano gestualità radicali. Da noi braccia tese fascistoidi, in Turchia la mano che mima il volto del lupo. Ai recenti Europei di Germania Merih Demiral l’aveva fatto esultando in tal modo dopo aver segnato contro l’Austria. Non sappiamo se stesse cercando anche lui un futuro da parlamentare col partito di Bahçeli, il maggior alleato di Erdoğan, sta di fatto che l’Uefa ha stigmatizzato la pratica di simbologie politiche trasportate sul terreno di gioco da pluripagati professionisti che contravvengono palesemente al regolamento. Accanto all’Assemblea trasformata in arena, riappare il contrasto nella magistratura turca in gran parte addomesticata dalla politica erdoğaniana, frutto delle famose radiazioni dei reali e presunti giudici (e militari, poliziotti, insegnanti, impiegati) fethulaçi, gli aderenti al movimento di Fethullah Gülen, l’ex sodale e poi grande nemico di Erdoğan, accusato d’aver organizzato il tentativo di golpe del 2016. Dopo quelle purghe fra i membri di vari tribunali, fra cui la Corte di Cassazione, prevalgono toghe schierate col presidente-sultano. Resistono alcuni membri della Corte Costituzionale, dove una maggioranza di nove su quattordici s’era espressa per l’immunità ad Atalay affinché potesse entrare in Parlamento. La maggioranza invece gli ha sbarrato l’ingresso e con le manone di Alpay ha punito chi protestava. Ancora una volta in Turchia lo stato di diritto viene calpestato e ciò che risulta più inquietante è l’intimidazione ai più alti livelli, quasi lo Stato non esistesse. Sarà interessante conoscere se al deputato-assaltatore verranno applicate sanzioni o tutto sarà cancellato come le macchie di sangue sul pavimento.

mercoledì 7 agosto 2024

Yunus, miracolare il Bangladesh

 


Hanno acclamato a gran voce il ‘banchiere del popolo’ Muhammad Yunus e lui ha detto sì, dall’alto dei suoi ottantaquattro anni ben portati ma chissà fino a quando supportati dal Dio del tempo. E’ che la ribellione di piazza in Bangladesh, quella che ha messo in fuga la matura autocrate Hasina, non ha né capi né organismi politici e rischiava di finire in mano ai militari ovvero al Partito nazionalista che nelle scorse ore ha visto liberati alcuni esponenti che hanno provato a capitalizzare il sangue su cui gli studenti bengladesi hanno costruito la ribellione alla dittatrice populista ora riparata in India. Ma non poteva certo essere l’ex premier Khaleda Zia, per anni guida preconfezionata in alternanza alla Hasina, un futuro per la nazione. Glielo impediscono l’età, una malattia che la costringe sulla sedia a rotelle, ma soprattutto l’assenza di relazione col cuore della protesta di queste settimane, un cuore che vuole cambiare sebbene gli manchi l’organizzazione per farlo. Perciò la gioventù ribelle in maniera quasi scaramantica s’affida a un simbolo, l’uomo dell’ottimismo che inventò il micro-credito e per questo ha ricevuto nel 2006 il riconoscimento del Nobel. L’idea semplice e al tempo dirompente con cui Yunus dimostrava l’onestà dei piccoli e dei poveri, poiché i prestiti del suo istituto di credito, Grameen Bank, ritornavano in cassa anche a fronte dell’assenza di garanzie ha rappresentato uno schiaffo al sistema mondiale canaglia coi deboli, ossequioso e disponibile coi potenti della finanza. I neppure trenta dollari prestati a un gruppo di donne che producevano mobili di bambù nel villaggio di Jobra, vicino alla sua nativa Chittagong, vennero restituiti e il modello Yunus iniziò ad ampliarsi sempre più sul territorio che lottava contro le devastanti inondazioni e la povertà. La banca Grameen, che in bangla significa appunto villaggio, aiutava la gente del mondo rurale e veniva sostenuta da questi clienti, creando un circolo virtuoso che risollevava le sorti economiche di molti abitanti. 

 

Cinque miliardi di dollari a cinque milioni di richiedenti, un sistema oliato a tal punto che la fama di quel banchiere atipico ch’era Yunus giunse sino a Washington nella sede della Banca Mondiale, interessata al caso. I riconoscimenti ricevuti dal visionario e alternativo economista finanziario bengladese sono sicuramente anche il frutto dei buoni uffici che questo pilastro delle istituzioni internazionali, nate con gli accordi di Bretton Woods, riconobbe a Yunus. A tal punto che alcuni crediti minuti sono diventati una prassi diffusa dalla stessa Banca Mondiale, senza però mutare né turbare gli indirizzi a lungo seguiti dal sistema nato nel 1944. E se il medesimo andò in crisi a inizi Settanta con la sospensione della convertibilità del dollaro in oro, il ruolo del Fondo Monetario Internazionale e della stessa Banca Mondiale continuano a risultare centrali in quel “sud del mondo” su cui il capitalismo occidentale non demorde nel concedere aiuti in cambio di stabilità governative. Che spesso si traduce in tipologie di esecutivi e premier graditi ai sette grandi del mondo, quelli del G7, che possono allargare le maglie diventando G20 o giù di lì, comunque stabiliscono le regole dell’economia globale, sia nella sua fase di crescita sia in quella di ridimensionamento e crisi. Insomma il FMI ha 190 membri, ma chi decide sono i soliti noti del “nord del mondo”, questo gli hanno rinfacciato a lungo altri premi Nobel come Stiglitz e Sen, oppure intellettuali no-global come Chomsky e critici della rigidità di bilancio e politiche monetarie del livello di Fitoussi. Se e quanto Yunus servirà al futuro politico del disorientato Bangladesh, sofferente per le politiche esclusiviste d’un ceto politico che per trent’anni ha diviso la popolazione favorendo un’èlite, lasciando orfani decine di milioni di cittadini che non caso sono costretti a vagare per il mondo in cerca di lavoro (nutrita è la presenza nelle maggiori città italiane). Schiacciato nella geopolitica asiatica fra l’India e la Cina il Paese deve pensare a un domani nient’affatto semplice. Proprio il FMI ha garantito a lungo il potere di Sheikh Hasina. Sarà benevolo con l’amico dei poveri e soprattutto lo sosterrà a suon di miliardi come faceva finora con la signora delle clientele? 

lunedì 5 agosto 2024

Hasina, la grande fuga

 


Non punta più l’indice contro tutto e tutti, non può più farlo. La premier bangladese Sheikh Hasina si lascia dietro macerie sociali e oltre trecento morti. Fugge con la sorella per un luogo sicuro, che resta al momento segretissimo e lontano dalla terra d’origine che l’aveva vista agguantare la politica e il potere per quattro mandati consecutivi. Non si fidava neppure delle squadre antisommossa scatenate nell’ultimo mese contro manifestazioni inizialmente pacifiche, diventate dopo i primi ammazzamenti di strada montanti e violente. Aveva impressionato a metà luglio la morte in diretta di Abu Sayeed, colpito in pieno petto da una gragnuola di proiettili di gomma che gli avevano procurato il decesso per emorragie interne. Dopo di lui a decine gli universitari e altri giovani sono stati stroncati dalla repressione cieca voluta da Hasina, che dell’azzeramento della protesta “anti quote” ne faceva una questione d’onore. Stamane i manifestanti le sono entrati in casa, nel palazzo Ganabhaban residenza ufficiale del governo, mentre lei s’era già allontanata, e la polizia tollerava l’invasione a patto che si evitassero devastazioni. Alcune voci sostengono che l’anziana leader sia riparata in India, non si sa se accolta da Modi, comunque indietro non può tornare. Il generale Uz-Zaman a nome delle Forze Armate assume il momentaneo controllo della piazza, promettendo che le stesse non apriranno il fuoco, come invece fatto per settimane dalla polizia. L’intento è quello di sedare gli animi puntando alla formazione d’un governo ad interim. Ma le decine di migliaia di contestatori che hanno marciato sulla capitale, France Presse calcola fossero oltre 400.000, non sembrano disposti a farsi pilotare dall’esercito, seppure armato, sebbene tanti ex militari strizzino l’occhio ai rivoltosi. Né questi si fidano dei partiti d’opposizione, soprattutto il Partito nazionalista che negli ultimi giorni ha mobilitato i propri attivisti. Nelle dichiarazioni strappate ai giovani festanti e inorgogliti dal rovesciamento di quello che definivano un regime traspaiono determinate volontà. Il protezionismo di cui godono settori protetti dal ceto politico cui apparteneva la premier dileguata, dev’essere cancellato; il mercato del lavoro dev’essere aperto agli strati marginalizzati. Da parte sua l’Onu chiede la cessazione d’ogni violenza, mentre occorre capire cosa faranno i poteri forti della finanza globale, come il Fondo Monetario Internazionale che per decenni ha foraggiato Hasina e il suo populismo contrario a una bella fetta del suo popolo.

domenica 4 agosto 2024

Bangladesh, si continua a morire

 


Non finisce mica la conflittualità in Bangladesh. I rivoltosi muoiono ancora in strada sotto il piombo della polizia, ma cominciano a portarsi dietro i loro repressori. Le notizie odierne delle agenzie riferiscono di settanta vittime a Dacca e nei distretti settentrionali (Bogura, Pabna), meridionali (Barisal, Femi) e a Magura nell’ovest, tredici sono agenti delle forze dell’ordine attaccati in una centrale della città di Sirajgani che è stata data alle fiamme. I manifestanti uccisi dall’inizio della protesta nel mese di luglio sono oltre duecento, sebbene il governo della contestatissima premier Hasina, tende a non riferire dati. Non solo. Nei suoi ultimi interventi, mai stati teneri verso le proteste rivolte contro le sue quote di posti garantiti ai parenti dei “combattenti dell’indipendenza del 1971”, ha sostituito il termine rivoltosi con criminali. Ritenendo i giovani e anche i meno giovani che ne criticano l’operato semplicemente dei teppisti. Oltre all’interruzione dei collegamenti internet, nelle ultime tre settimane il Paese sta conoscendo un’ondata di arresti, mai stati così numerosi. Alcune agenzie asiatiche li calcolano fra le undicimila e dodicimila unità. Accanto alla componente dei senzapartito sono in piazza gli stessi attivisti del Partito Nazionalista, oppositore istituzionale della Lega Awami, il gruppo della premier. Chi è sul luogo ribadisce la determinazione dei manifestanti a non mollare, pure davanti al rischio di finire passati per le armi. “Hasina deve dimettersi” è la parola d’ordine e la gente non recede anche di fronte al coprifuoco imposto non solo nelle ore serali e notturne. Così di fatto anche le attività lavorative risultano in difficoltà, per la limitazione dei movimenti e della circolazione. Una specie di gruppo d’orientamento della protesta che fa capo agli universitari, i primi a lanciare il boicottaggio, invita la popolazione a non collaborare col governo, a scioperare dov’è possibile, rifiutandosi di versare le tasse. Per parare il colpo l’esecutivo ha annunciato tre giorni di chiusura “festiva” fino a mercoledì, ma la mossa potrebbe risultare favorevole ai contestatori. Gruppi internazionali di attivisti dei diritti umani accusano Hasina di abuso politico e istituzionale “Sta tenendo in ostaggio la nazione, deve andarsene”. Lei non ci pensa affatto e incrementa il numero dei reparti antisommossa.