I richiedenti cibo, facce della sofferenza dell’anima prima
che dello stomaco, vagano nella ‘Casa della fatica’. Questo vuol dire in arabo
Beit Lahia, a nord di Jabalya, Striscia di Gaza. E quella gente piombata dalla
feroce precarietà sedimentata nel tempo, alla lotta per la sopravvivenza minata
dalla voglia d’uccidere d’Israele, uccidere con le armi di un esercito
occupante e con la perfidia di civili che bloccano sul confine i camion
alimentari, poco sa del resto. Di ennesime trattative internazionali – Cairo,
Doha e sulle linee telefoniche dei Grandi – e di notizie prossime: le
dimissioni di tal Mohammad Shtayyeh, economista, politico, uomo del clan
dell’Autorità Nazionale Palestinese che sembrerebbe accettare la sorte
disegnata per un domani, incerto nel percorso e nei tempi. Ristabilire il ruolo
di rappresentanza, quello che Abu Mazen, tanto utile al ventennio in cui Tel
Aviv ha praticato l’avvelenamento esistenziale spingendo centinaia di migliaia
di coloni in Cisgiordania, ha tenuto congelato. Un processo che al di là dello
sviluppo delle trattative per lo scambio di prigionieri, Hamas dovrebbe accettare. Rimescolare le carte politiche di quel
che resta della presenza palestinese nei Territori occupati, misurarsi
elettoralmente con Fatah, cercare un
futuro sebbene disastrato dalla persecuzione bellica che azzera ogni
autodeterminazione, frustrando qualsiasi progetto. Eppure se questo passo
dovesse compiersi mostrerebbe il fallimento del piano di cancellazione del
gruppo islamista su cui tuttora insiste il premier Netanyahu. I 144 giorni, e
quelli che seguiranno, di assedio della Striscia producono un ridimensionamento
militare di Hamas, non la sua
scomparsa. Anzi, la presenza a ogni trattativa di suoi esponenti ne conferma
vivacità e legami internazionali a tutto tondo. Ulteriori tappe, chissà se
elettorali, potrebbero rivelare trame per isolarlo, né è chiaro lo spazio
d’intervento politico di frazioni minori della Jihad palestinese. Ma un futuro, se possono immaginarlo i milioni
d’intrappolati a Gaza insieme ai fratelli egualmente tenuti sotto tiro in
Cisgiordania, un futuro politico per quegli occhi che hanno conosciuto mesi di
morte e inenarrabili sofferenze risulta alquanto straniante. Irto di questioni e
domande. Chi difende oggi la causa palestinese? Chi lo fa realmente fra
combattenti e politicanti di casa? Chi fra i Paesi arabi più amici del sionismo
oppressore che dei piedi ignudi, della pelle aggredita dalla scabbia, delle
viscere svuotate dalla dissenteria, visto che bisogna diffondere morte
improvvisa oppure lenta. Lentissima e inesorabile. I settantasei anni di
un’agonia protratta, passata per i campi profughi, lacerata nell’atomizzazione
d’un popolo che Israele vuole dissanguare con l’ausilio dei suoi alleati,
parecchi dei quali parlano la lingua di Maometto e seguono la sua fede, ha
fermato il tempo sulla costante della sofferenza infinita. Se la politica
palestinese riuscisse a trovare uomini adatti ai reali bisogni della gente, quei
poveri occhi già sarebbero meno smarriti. Poi tutto continuerà a dipendere
dalle volontà dei carcerieri israeliani. Ma almeno non si sarà rappresentati da
loro complici.
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