Privato del simbolo, col leader interdetto dalle corsa alle urne per le condanne per corruzione, che lui peraltro ha sempre contestato, coi candidati costretti correre da indipendenti, egualmente il partito Tehreek-e Insaf vince le pluri rimandate elezioni pakistane. Lo spoglio delle schede gli assegna 93 seggi parlamentari contro i 73 della Lega Musulmana-N controllata dal clan Sharif, i 54 del Partito Popolare Pakistano della dinastia Buttho-Zardari. I restanti seggi sono divisi fra il conservatore religioso Jamiat-e Ulema Islam, forte del consenso nel Khyber Pakhtunkhwa con 3 seggi, e ben 34 ottenuti da vari gruppi. Accanto a fasi di tensione con attacchi anche armati, come l’agguato subìto dall’ex capo del Movimento nazionale democratico Mohsin Dawar, ferito nel focoso distretto del Nord Waziristan, si registrano contestazioni nel computo dei voti, con conseguenti accuse di brogli rivolti alla Commissione elettorale. A un Nawaz Sharif, rientrato dal dorato esilio londinese per sostenere la candidatura del fratello e improvvidamente lanciatosi in un anticipato annuncio di successo della sua lista, è seguito l’appello festoso per la probabile vittoria di Imran Khan. L’ex premier, disarcionato dall’incarico nell’aprile 2022, dichiara: "Miei compagni pakistani, avete fatto la storia. Sono orgoglioso di voi, e rendo grazie a Dio per aver unito la nazione". La felicità di Khan è frutto della conferma ricevuta col voto popolare dal suo partito, dopo un anno e mezzo in cui la sua persona e lo schieramento di cui è leader, sono stati al centro d’un ostracismo operato da avversari politici e dagli stessi organi statali, giuridici e polizieschi. L’attribuzione dei dati finora espressi metterebbero in luce un legame profondo che il Movimento della Giustizia creato dall’ex stella del cricket, ha con gli strati più diseredati della nazione. Questo partito, si disse nella fase del successo elettorale del 2018 fosse sostenuto dall’onnipresente lobby militare, ma in quest’occasione si afferma senza quel benestare, visto che i guai giudiziari di Khan sarebbero legati a diatribe con un potente generale dell’esercito. Però oltre a proficui vantaggi di lista, appare chiaro come nell’Assemblea nessuno schieramento possa vantare un’egemonia per governare. Neppure il Pti, che nell’isolamento in cui è finito non può probabilmente sperare neppure in accordi coi raggruppamenti minori. Questi peraltro non portarono bene a Khan: due anni or sono fu il mancato voto di fiducia di alcuni alleati a farlo cadere. Lui sostenne che quella sfiducia fosse pilotata addirittura a livello internazionale, richiamando addirittura lo zampino della Casa Bianca che non gradiva la sua politica estera a tutto tondo allargata a Mosca e a Pechino. E se nessun deputato eletto in Parlamento da indipendente, pur appartenendo al Tehreek-e Insaf mostra un carisma tale da proporsi come capo d’un futuro governo, egualmente i partiti tradizionali sembrano tagliati fuori dall’iniziativa. A meno che gli Sharif e i Bhutto rinuncino alle annose battaglie politiche che li hanno visti contrapposti per decenni, e propongano una coalizione che starebbe stretta innanzitutto ai rispettivi elettori. Per non parlare di come la prenderebbero le masse che hanno ribadito la fiducia al Pti, pur privato di quel simbolo capace di calamitare il voto degli ancora tanti analfabeti. A elezioni concluse, a conteggi da precisare, la difficoltosa governabilità del Pakistan rimane palese. Per tacere dei ben più disastrosi problemi di una disoccupazione crescente e un’inflazione galoppante. Oltre alle sciagure climatiche dello scorso anno che produssero la migrazione forzata di venti milioni di abitanti.
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