Gialla come la sabbia che ha attorno e sopra le fondamenta, la landlines della città senza nome, nuova
capitale amministrativa d’Egitto che tutti iniziano a chiamare Sisi city, è una
realtà visibilissima seppure da terminare nel 2022. Questa è la data in cui il
Parlamento, i palazzi del presidente, 34 ministeri, le ambasciate straniere
dovrebbero avviare le molteplici attività nelle nuove spettacolari sedi. Notizie
particolari potrete trovarle nell’interessante reportage realizzato da Emanuele
Midolo (Inside Egypt’s new capital in
https://www.propertyweek.com/)
mentre qui ricordiamo la politica dello stupore adottata da più d’un uomo forte
per sostenere il proprio dominio. Certo è sempre stato così. Nella storia
millenaria del genere umano e nelle latitudini più varie, le opere di pubblica
utilità o semplicemente di piacere riflettono un senso di grandezza e potenza
su governi, regimi o singoli dittatori che le propongono. Eppure esistono
palesi differenze fra le medesime ‘opere epocali’. Restiamo in Egitto, che
vanta prototipi ciclopici tuttora svettanti nell’area di Giza o di Luxor, e
parliamo delle modernizzazioni contemporanee, ponendo due esempi.
Il primo può avvicinarsi a Sisi city, come città nuova sorta
fra le polveri del deserto a una decina di chilometri dalla Cairo dei
mamelucchi e di Al Azhar, ed è quello
dell’Heliopolis inventata nel 1905 dal barone belga Empain in rapporto col
figlio del primo ministro Nubar Pasha. Quest’ultimo, metà egiziano e metà
armeno, aveva attraversato la fase del trapasso dell’Impero Ottomano in terra
d’Egitto nel ruolo di bey e servendo
da ministro. Agli inizi del Novecento il barone egittologo giunse al Cairo con
l’intento d’investire denaro della consorte nella realizzazione d’una linea
ferroviaria per unire l’affascinante area archeologica di El Matareya (con la
necropoli di Eliopoli datata 2000 anni prima di Cristo) e Port Said. Probabilmente
la linea elettrificata fungeva da pretesto, visto che l’Oases Company insieme alle ferrovie s’occupava di sviluppo
immobiliare, e tutt’attorno edificò Heliopolis, un sobborgo diventato presto
“città del lusso”. Così una fetta di deserto venne urbanizzato in un paio
d’anni, dotato di ville a schiera e terrazzate con uno stile proprio, condomini
per il personale che lì lavorava e bungalow per la servitù. Un bel business
coloniale con vantaggi per i politici locali sedotti da un affarismo privato che
non rimpinguava le casse della nazione, neppure dopo gli anni Venti quando essa
raggiunse l’indipendenza emancipandosi dal protettorato britannico.
La cittadella vantava un parco divertimenti, diventando zona
residenziale di famiglie benestanti e di cittadini europei. Solo con l’avvento
di Nasser il sito s’aprì ai ceti medi, pur sempre istruiti, e agli ufficiali
dell’esercito. Col tempo la potente lobby militare trasferì in loco alcune sedi
fra cui l’Accademia aeronautica, tantoché a Heliopolis stabilì la sua residenza
il presidente-raìs Hosni Mubarak, che nell’aeronautica aveva mosso i primi
passi come ufficiale per poi lanciarsi in politica. Negli anni tutta l’area è
diventata il proseguimento della grande capitale che oggi supera i venti
milioni di abitanti, restando comunque un quartiere-bene, abitato da ricche
celebrità dello spettacolo e dello sport, da politici e uomini d’apparato. Il buen retiro dei vip come ne esistono in
tutte le metropoli del globo. Un luogo da preservare dalle agitazioni sociali e
politiche. Su questa falsa riga nasce e cresce Sisi city, che entra in sintonìa
col mega affarismo mondiale di cui la Cina si fa interprete, attuando la
profonda penetrazione nel continente dalle immense risorse.
Le imprese di Pechino sono ovunque e regina della nuova Cairo
amministrativa è la China State
Construction Energeering Corporation, colosso dei colossi quanto a
pianificazione, progettazione e realizzazione d’ingegneria e design. Nata ai
tempi di Mao Tse-tung, rivisitata secondo il pragmatismo di Deng e lanciata sul
mercato globale dall’attuale dirigenza cinese, CSCEC vanta società controllate
e quotate in varie Borse a cominciare da quella di Shanghai. La nuova sede
della politica egiziana costa tre miliardi di dollari, si realizza grazie a un
prestito cinese per un lasso temporale di dieci anni. Ma China State Construction Energeering Corporation guarda a ogni
angolo africano, è impegnata in Algeria con la costruzione della grande Moschea
e dell’aeroporto della capitale (due miliardi di dollari), ad Addis Abeba col
grattacielo che ospiterà la Banca Commerciale d’Etiopia e lo Stadio Nazionale,
quindi nello Stadio dei Martiri a Kinshasa e in Botswana. CSCEC incarna uno dei
volti dell’imperialismo finanziario di Pechino che ovunque tesse la sua ‘via
della seta’ e penetra, finora senza colpo ferire, nelle situazioni più
complicate che giungono nel contraddittorio Pakistan (Parco tecnologico di
Lahore, Jinnah Stadium di Islamabad), nel travagliato Afghanistan (giacimenti
di rame di Mes Aynak) evitando di guardare dentro i buchi neri della geopolitica.
Come del resto fan tutte le imprese mondiali.
L’altro esempio è la diga di Aswan, la cui prima realizzazione
è quasi coeva a Heliopolis. Nel 1902, sotto il protettorato britannico, nei
pressi dell’omonima città s’inaugurava una diga sul Nilo lunga 1900 metri, alta
54, che venne ulteriormente elevata e ampliata fra il 1907 e il 1912 e sotto la
monarchia Fu’ad nel 1933. Si trattava di un’opera d’alta ingegneria di cui
beneficiava la nazione afflitta da inondazioni, benefiche per la distribuzione
del famoso limo in aree desertiche, ma anche distruttive verso raccolti e
villaggi rurali. Con la diga il controllo e la regolazione delle acque del Nilo
avrebbero fornito maggiori garanzie. Nel secondo dopoguerra anziché pensare a
un terzo ritocco della diga si decise di costruirne una nuova sei chilometri a
monte della precedente e l’attuazione dell’opera faraonica, è il caso di dirlo
anche se a gestirla fu un politico in odore di socialismo e terzomondismo come
il presidente Gamal Nasser, divenne un caso nella geopolitica nazionale. Perché
attorno ai suoi finanziamenti gravitarono gli interessi del ritorno
strategico-militare con cui si misuravano le potenze mondiali statunitense e
sovietica nella fase della cosiddetta “Guerra fredda”.
La diga di Aswan doveva essere sostenuta dall’aiuto del
Segretario di Stato John Duller, 70 milioni di dollari (56 americani, 14
britannici) più altri 200 milioni dalla Banca Internazionale della Costruzione
e lo Sviluppo, un organismo delle Nazioni Unite sorto con gli accordi di Bretton Wood,
organismo sedicente senza fini di lucro, ma con interessi di orientamento
politico non secondari. Non a caso la Banca e il Segretario di Stato Usa
affievolirono i propri slanci quando il presidente Nasser mostrò esplicitamente
di volersi rapportare al Cremlino per questioni di natura internazionale. Era
il luglio 1956 e da quel momento il progetto della diga cambiò sfera
d’influenza. Due anni più tardi il Segretario dell’Urss Nikita Kruscev
esplicitava la volontà di Mosca di finanziare per un terzo l’opera
ingegneristica. I restanti costi vennero sostenuti coi proventi dei dazi
doganali di Suez, cresciuti
sensibilmente dopo che lo stesso Nasser aveva attuato la nazionalizzazione del
canale. Nell’immenso lavoro della nuova diga durato un decennio e inaugurato
nel luglio 1970, intervenne anche l’Unesco per salvaguardare l’imperdibile
patrimonio archeologico di Abu Simbel, che venne riposizionato a monte, pezzo
per pezzo, mentre alcuni templi furono donati a importanti musei del mondo.
I benefici dell’immensa diga (3600 metri di lunghezza, 980 di
larghezza, 111 di altezza), quelli di sventare inondazioni evitando carestie
che si riproponevano anche negli anni Settanta e Ottanta, furono sotto gli
occhi di governanti e cittadini, oltre ai vantaggi energetici: metà del fabbisogno del Paese per
tutti gli anni Ottanta era soddisfatto dalla produzione idroelettrica. Certo,
si riscontrarono anche diverse pecche: eccessiva sedimentazione a monte ed
erosione a valle, accresciuta salinità nell’area del Delta, scomparsa di talune
specie migratorie, rischi sanitari per aumento di malaria e diffusione di
parassiti. Problemi spesso tralasciati dalle autorità competenti e
dall’amministrazione politica, ma lo scopo di un’opera come questa era completamente
rivolto alla vita della nazione, all’intera comunità egiziana in un’ottica oggettivamente
interclassista. Nulla a che vedere con la città dei sogni del barone affarista
che pensava ai benestanti e che ha conservato quell’impronta. Se la politica di
ciascun presidente nei decenni che si sono seguiti ha cercato di trarre dalle
grandi opere la maggiore visibilità per sé per ottenere lustro e uno
sbalorditivo effetto propagandistico, il generale Sisi segue questa scia e
l’amplifica. Vuole una città-apparato abitata dalla sua gente: sei milioni di
funzionari e impiegati legati alle Istituzioni e alle strutture della forza che
si separa dal Cairo popolare, guarda all’efficienza occidentale, lasciando al
caos modellato sul suq di Khalili, l’esistenza plebea. Ovviamente non volta
totalmente le spalle a quella gente cui, come ogni dittatore che guida i
sudditi con lusinghe e paura, solletica il sogno di poter accedere nella city
dell’apparato, ottenendo “un lavoro che conta”. Oppure continuando a sognarlo,
arrangiando l’esistenza con l’ossequio al potere che chiede quando occorre, cioè
sempre, obbedienza e rassegnazione. E spesso delazione.
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