Giunge al settimo giorno e continua il summit di Doha fra statunitensi
e talebani. Quest’ultimi hanno ormai surclassano i primi nei titoli della
stampa internazionale. La volontà di patteggiare appare elevata e la discussione
ribadisce due volontà assolute. I taliban chiedono il ritiro di tutte le truppe
occupanti, gli statunitensi vogliono garanzie per eliminare dal territorio
afghano qualsiasi presenza terroristica contro se stessi e gli alleati. Tutto
chiaro. Ma ci sono alcune variabili non specificate nei resoconti dei reciproci
portavoce. Il ritiro incondizionato di truppe Nato riguarda anche le basi aeree
create durante i diciotto anni d’occupazione? E la richiesta americana di
eliminare dal territorio afghano i pericoli per i soldati di Washington si
riferisce a una presenza interna a quel Paese o ad avamposti limitrofi? Difficile
credere che i talebani si mettano a fare i gendarmi pro Usa contro i fratelli
dissidenti dell’Iskp o gli irriducibili pro Isis, che detestano per questioni
di concorrenza, e una presenza statunitense anche ridotta di marines e avieri
entrerebbe in contraddizione con la fermezza dichiarata dalla richiesta
talebana.
E allora c’è da chiedersi se fra le pieghe della seriosità dei
colloqui non si celino i classici trucchi di quella politica intransigente con
deroghe per interessi di parte e d’apparato. Occorrerà vedere gli sviluppi per
comprendere meglio. Intanto quel che sembra un gran desiderio di risolvere
alcune questioni sta nella rappresentanza delle delegazioni. Finora l’Alto
rappresentante per gli Usa Zalmay Khalizad ha accettato il veto posto dai
turbanti a una qualsiasi presenza al tavolo di trattativa dell’attuale governo
di Kabul; ciò significa che la Casa Bianca è costretta a rinnegare un
quindicennio di sua politica per la trasformazione (pilotata) di quel Paese. Un
progetto in effetti naufragato da tempo sul piano militare, politico, giuridico
e amministrativo. I Karzai, i Ghani, gli Abdullah appaiono per quel che sono
stati e sono: fantocci, ora abbandonati dagli stessi burattinai. L’investitura
del leader talebano con cui l’America di Trump sta discutendo è indubbiamente
di rango. Il mullah Abdul Ghani Baradar è stato cofondatore del movimento degli
studenti coranici, vicinissimo al mullah Omar.
E’ lui che negli ultimi mesi
ha trovato l’accordo con tutti i capi clan afghani, da quelli della Shura di
Quetta solo parzialmente contenti della leadership di Akhunzada su cui preme
l’Iran, ai ribelli di Haqqani carezzati dagli emiri del Golfo, tenendo per ora
buoni anche i riottosi miliziani del Waziristan settentrionale. Baradar ha
compiuto un miracolo. Un’azione resa comunque possibile dalla Cia, che
nell’ottobre scorso ha ordinato all’Intelligence pakistana di liberare questo
leader, catturato nel 2010 e tenuto a lungo in catene nelle carceri speciali di
Islamabad. Questa prigionia prolungata doveva servire al governo pakistano per
privilegiare quei turbanti che si aprivano a una collaborazione, ma nei mesi
scorsi sono entrati in scena direttamente i Servizi statunitensi che hanno
imposto al premier Khan la liberazione dello storico leader affinché
rappresentasse il movimento talebano a Doha. Baradar s’è immedesimato nel
ruolo, spendendo la sua autorità per trovare una linea di condotta comune fra i
miliziani dialoganti. Occorrerà vedere chi farà gli interessi di chi.
Certamente non si profilano tutele per civili e donne afghane.
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