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Weeda
Ahmad è la presidente dell’associazione afghana Saajs (Social Association
Afghan Justice Seekers) da anni impegnata a raccogliere testimonianze sui
crimini di guerra compiuti da figure politiche afghane tuttora presenti sulla
scena nazionale e internazionale con incarichi istituzionali. Ha partecipato
assieme ad altri attivisti dei diritti: l’egiziano Malek Adly (in video),
l’irachena Nibras Almamuri, l’indiano Assem Trivedi, il siriano Zaidoun al
Zoabi, il mauritano Biram Dah Abeid, al convegno “Difendiamoli!” organizzato ieri
presso la Camera dei Deputati da diverse associazioni che sostengono la
protezione dei Diritti Umani.
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Weeda è utile confrontarsi con attivisti
di altre nazioni sul tema dei diritti umani negati?
Il
dialogo e la collaborazione fra chi si batte per il rispetto dei diritti umani
nei vari Paesi sono indispensabili, i difensori delle libertà rappresentano un
mezzo formidabile di sostegno reciproco a livello internazionale. Proprio
perché i profanatori di questi diritti e i criminali sono uniti fra loro, trovo
giusto coordinare le attività di chi si difende.
Cosa s’aspetta l’associazione Saajs da simili
convegni?
Ci
aspettiamo che le testimonianze e i propositi che qui si confrontano non
restino rinchiusi nei recinti d’un salone, pur importante come questo del
Parlamento Italiano. Non vorremmo che terminato l’ennesimo convegno tutto venga
archiviato, poiché in tal modo si favorisce l’oblìo. Auspichiamo la nascita di
comitati permanenti che possano sviluppare confronti e un percorso comune.
Così da portare al cospetto del
Tribunale Internazionale dell’Aja le nefandezze di più Paesi?
Sarebbe
giusto. Certo, prendiamo l’esempio afghano: il nostro governo dal 2003, sotto
la prima presidenza Karzai, ha riconosciuto il Tribunale dell’Aja però si
dichiarava competente per crimini avvenuto dopo quell’anno; lasciando, dunque,
scoperta tutta la fase della guerra civile (1992-96) in cui i signori della
guerra dal hanno massacrato 80.000 concittadini e tralasciando il periodo del
terrore talebano fino al 2001. Negli anni successivi al 2003 a Kabul è stato
creato un comitato governativo che doveva rapportarsi alla Corte dell’Aja, in
questa struttura è presente Salahuddin Rabbani, figlio dell’ex signore della
guerra che fu anche presidente della Repubblica Islamica dell’Afghanistan, ed è
attuale ministro degli esteri dell’amministrazione Ghani. Strutture che vedono
la presenza di questi uomini ovviamente non lavoreranno per inseguire la
giustizia sulle atrocità del passato.
Prevale maggiormente la condivisione
del dolore o la frustrazione per la mancata giustizia?
Ci
sono entrambe, non lo nascondo. C’è anche quel senso d’immobilità delle cose,
però c’è il desiderio di guardare avanti e non arrendersi. Non abbiamo altra
via.
Nel vostro Paese giungono notizie delle
vessazioni altrui?
Purtroppo
abbiamo un sistema mediatico acquiescente e complice verso il potere che non
presta attenzione al quadro internazionale. I familiari delle vittime civili -
che nel quindicennio d’occupazione occidentale sono continuate a esistere - non
hanno bisogno di conoscere dai media gli scempi, vengono informati sul posto o,
se si abitano in altre zone, sono avvertiti da gente comune e funzionari
governativi. I giovani che usano i social network si trovano di fronte a un
bivio: sul web esistono siti d’informazione ufficiale come Tolo tv, e quelli d’opposizione
fondamentalista e d’altra tendenza. Ognuno osserva i suoi canali, li usa e lì
cerca proprie referenze, non c’è dialogo fra le parti.
Ai deputati italiani che sostengono un
governo che finanzia truppe d’occupazione nel vostro Paese, cosa chiedete? cosa
rivendicate ?
Ai
questi parlamentari non chiediamo nulla perché se sostengono la missione Nato
sono complici di ciò che fanno le truppe d’occupazione. Ribadisco: dal 2001 con
l’Enduring Freedom, la missione Isaf e ora col Resolute Support i crimini di guerra non
sono diminuiti. Noi domandiamo solidarietà al popolo italiano, alle strutture di
sostegno di diritti umani, alle Ong, al volontariato.
Quale svolta prevede in Afghanistan: i
talebani verranno cooptati al governo?
Sono
pessimista. L’integrazione dei talebani nel governo è possibile, e questo
sposterà ancor più l’orientamento del Paese verso il fondamentalismo in
politica e nei costumi, ma tutto ciò non basterà a limitare gli spazi dell’Isis.
Se dovesse proseguire un’occupazione occidentale, i miliziani potrebbero
sostituire i taliban nel ruolo di resistenti.
Cosa avete pensato dell’apertura
compiuta dal presidente Ghani verso Hekmatyar, noto come ‘il macellaio di
Kabul’?
Che
il governo “democratico” getta la maschera. Come ai tempi di Karzai questi
personaggi servono due padroni: gli statunitensi che li insediano e i
fondamentalisti interni con cui fanno affari.
Anni di lavoro a raccogliere
testimonianze sulle vittime dei signori della guerra andati in fumo?
Non
proprio. La coscienza acquisita con quest’esperienza e i frutti della stessa -
le testimonianze documentate - non sono lavoro perso. Tornano utili perché
creano determinazione e senso civico in nuove leve di attivisti. Inoltre
conserviamo molte copie dei documenti, nella sede dell’associazione e in vari luoghi
segreti. A media o lunga scadenza, tutto servirà per inchiodare i criminali.
Aumenta fra la gente il sostegno al
vostro lavoro oppure prevalgono nuovamente paura e omertà?
L’omertà
no. La nostra gente odia i politici afghani sia per le condizioni di miseria in
cui costringono milioni di persone, sia per la corruzione e il servilismo verso
lo straniero occupante e non. La paura è, invece, presente. In troppi di più
generazioni hanno perso fiducia per le tante promesse tradite negli ultimi
quarant’anni. La paura è un fattore oggettivo e si mescola con la sfiducia. Ma
c’è anche speranza. Ci aiutano i giovani, sull’onda di quell’energica
incoscienza che porta a impegnarsi per degli ideali in condizioni di assoluto
volontariato. Noi non molliamo. Non molliamo affatto.
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