Spietato interprete d’una forza di sicurezza
usata come arma di pressione per il suo personale potere Muhammad Dahlan,
sostenuto dal terzetto guidato dalla monarchia saudita, quella hashemita di
Amman e dall’emiro Khalīfa bin Zayed più il presidente-generale Al Sisi, pensa
a un rientro nella politica palestinese. Prospetta il passo dal buen retiro
dorato di Abu Dhabi, concedendo interviste al New York Times così da assicurarsi copertura mediatica a un’idea
osteggiata dallo stesso anziano, malandato e accentratore presidente
dell’Autorità Nazionale Palestinese. Proprio l’Abu Mazen che incarna antichi
vizi di quella struttura, scaturita dagli accordi di Oslo (1994) e gestita con
fare personalistico da Arafat, è additato da Dahlan come un uomo impaurito. Da
cosa? “Da quanto ha fatto negli ultimi
dieci anni e perché lui conosce ciò che io so”. Un messaggio mafiosetto
neanche tanto velato, rivolto a un sodale dei tempi passati (Dahlan è stato
ministro dell’Interno di Mazen) che non smentisce la linea da sempre seguita da
un personaggio abile e senza scrupoli che avversari politici accusavano
d’essere una pedina in mano a Israele. Di Israele imparò la lingua durante i
molteplici arresti avvenuti fra il 1981 e l’86 nella nativa Striscia di Gaza,
dove dirigeva l’ala giovanile di Fatah.
Uscito di prigione studiò amministrazione
d’affari presso l’Università di Gaza e aver spostato la saudita Jaleela, gli ha
aperto contatti con uno stato arabo particolarmente potente e all’occorrenza
utile per sé. Negli anni l’intera famiglia Dahlan (con moglie e quattro figli)
ha guadagnato altre cittadinanze: nel 2012 la montenegrina, nel 2013 quella
serba. Un cittadino del mondo? Forse molto più prosaicamente un elemento che
cerca ripari e vie di fuga rispetto a progetti ben poco idealisti. La scalata
al potere di Dahlan iniziò proprio col processo di pace degli accordi di Oslo, a
seguito dei quali assunse l’incarico di responsabile della forza di sicurezza, organismo
che aveva rapporti e collaborazioni col Gotha delle Intelligence: Cia e Mossad.
Ben addestrato e istruito, anche sul fronte della tortura, il rampante Abu Fadi
(suo giovanile nome di battaglia) ha usato “certe conoscenze” contro
combattenti palestinesi ritenuti avversari, soprattutto del movimento Hamas.
Un’accusa da lui respinta, ma rilanciata con evidenza da chi portava sul corpo
quelle ferite. Non è l’unica infamia attribuita a Dahlan, l’altra riguarda la
corruzione con cui sin dalla fine degli anni Novanta accaparrava finanziamenti
internazionali per la sua gente, dirottandoli su un conto personale. Questo
fiume di denaro l’ha reso ricco e, differentemente da altri vizi, lui la
ricchezza non l’ha mai nascosta.
Ora che ha in mente di riaffacciarsi nella
politica di casa riaperta dall’annoso tema delle elezioni presidenziali attese
già da due anni, è lui ad accusare il vecchio Mazen di tutti i mali che
circolano nei Territori Occupati e nella stessa Gaza: corruzione fra i
politici, dittatura individuale nello staff della dirigenza. Nell’intervista in
questione fa esempi noti: “Sono i segnali
di un regime come quelli di Saddam e Asad”. Per passato e odi trascorsi,
alcuni analisti sostengono che difficilmente Dahlan può proporsi come
candidato, più facile che metta la sua personalissima fazione a servizio di
nomi papabili. Oltre al sempre ipotizzato Marwan Barghouti, che Israele tiene
sepolto nelle proprie galere condannato per cinque omicidi sempre rigettati dal
condannato, c’è il nipote di Arafat, Nasser Kidwa, a cui Dahlan presterebbe
sostegno. Si dichiara pronto di poter vestire ogni ruolo di supporto,
amministrativo o militare, pur di tornare sulla scena. Invece una disillusione,
se non addirittura un rigetto, ai suoi piani giunge dal diretto interessato.
Kidwa dice che il passato non ritorna. Ma non tutti gli osservatori sono
d’accordo e l’uomo della forza incute apprensione. Per ora ci pensa ancora una
volta Abu Mazen ad allontanare ogni volontà di consultazioni: come nel biennio
precedente, tutto è congelato. In futuro si vedrà. Un futuro né democratico né
costruttivo per le sofferenze del proprio popolo.
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