Quattro morti, centoventi di feriti, come al
solito qualcuno grave che non ce la farà a vedere altri soli. Sono le
conseguenze dell’attentato compiuto ieri con un camion-bomba da un commando
talebano presso il consolato tedesco a Mazar-i Sharif. Attentato immediatamente
rivendicato con tanto di motivazione: una vendetta per i bombardamenti
statunitensi compiuti su villaggi nella provincia di Kunduz che avevano ucciso
32 civili. Operazione ammessa dallo stesso comando americano che ha aperto
l’inchiesta di prammatica per comprendere le modalità “dell’errore”. Insomma uno
scenario che si ripete stancamente, dove cambia solo, aumentando, il numero
degli afghani innocenti che perdono la vita. Certo anche per le reazioni
talebane che hanno fatto segnare nel 2015 undicimila fra morti e feriti civili,
l’esatto doppio dei militari e poliziotti afghani colpiti dalla
guerriglia. Mentre lo stillicidio continua,
non si comprende come proseguirà la missione Nato, che con il Resolute Support vede sul terreno poco
più di 13.000 soldati. Il sostegno maggiore alla controguerriglia viene dalle
nove basi aeree da cui partono voli di caccia per bombardamenti mirati a
seminare panico e morte, come dimostra l’ennesimo “errore” citato.
Più efficaci i colpi condotti coi droni che
mirano a gruppi selezionati, fra cui talvolta s’eliminano leader, com’è
accaduto nel maggio scorso a Mansour, primo sostituto del mullah Omar, poi
rimpiazzato da Akhundzada. Ciò che, ormai da oltre un triennio, non accade è
un’adeguata preparazione di truppe afghane (il reclutamento ha contato fino a
350.000 uomini); l’esercito locale che avrebbe dovuto sostituire la massa delle
truppe Nato ritiratesi fra il 2013 e 2014 (c’erano fino a 100mila marines).
Nonostante la profusione di fiumi di dollari, esperti, insegnanti d’ogni tipo,
anche della più sofisticata e canagliesca controguerriglia provenienti da
Langley, nei momenti topici l’Afghan National Security Forces ha dimostrato
inconsistenza e inaffidabilità. Così nelle stanze della Casa Bianca e del
Pentagono, gestione Obama, s’è rifatta avanti l’ipotesi dei colloqui coi talib.
E l’esecutore di Kabul, il presidente Ghani, tramite il premier Abdullah ha agganciato
uno degli immarcescibili verso signori della guerra, Gulbuddin Hekmatyar, per
un ruolo istituzionale di ambasceria verso i clan dei turbanti. Se un tavolo di
trattativa si dovesse riaprire e non è detto, perché tanti resistenti hanno chiaro
il quadro della propria forza e dell’inconsistenza delle truppe governative, la
sicura contropartita sarebbe l’abbandono totale del Paese da parte degli
occidentali, basi aeree comprese.
Un passo che nessun generale a stelle e strisce si
sente di accettare, non solo perché risulterebbe una disfatta peggiore di
quella vietnamita, ma perché sfalderebbe il sistema di controllo asiatico che
gli Stati Uniti hanno creato nei quindici anni d’occupazione. Da gennaio
bisognerà vedere la volontà del neo presidente Trump e del suo staff neocon, ma
ogni dipartita sarebbe un controsenso geostrategico. Se tutto dovesse restare
inalterato, ecco che gli avamposti dei presidi Nato continueranno a essere
obiettivi per ulteriori agguati. In quest’occasione sono presi di mira i
tedeschi, che hanno 980 militi nei fortini di Mazar-i-Sharif, una delle
province settentrionali. Oltre ai 6.800 marines dislocati a sud (Kandahar), est
(Laghman) e nella capitale, il contingente più numeroso è il nostro, con 945
unità piazzate a ovest (Herat). Attualmente è impegnata la brigata Pinerolo,
giunta nel maggio scorso e comandata dal generale Gianpaolo Mirra. Nel computo
dei militari impiegati dalla Nato seguono: Romania (588), Turchia (523), Gran
Bretagna (450), Repubblica Ceca (218), i Paesi coinvolti sono 39. Oltre al
rischio attentati, esistono altri elementi di logoramento per gli occupanti,
che se non l’incolumità rischaino la salute. Qualche militare rientrato in
Italia è risultato affetto da filariosi, fastidiosa e pericolosa infezione parassitaria.
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