L’Unione Europea offre tredici
miliardi e mezzo di euro all’Afghanistan fino al 2020 in cambio d’un congruo
numero di rimpatri di profughi. Prendere o lasciare. Ovviamente il presidente
Ghani che in Occidente, fra le due sponde dell’Atlantico, ha trascorso gran
parte dei suoi giorni, dice sì. L’accordo non scaturisce dall’assise di
Bruxelles appena conclusa, aveva storia e tempi già segnati. Lo rivela mister
Ekram Afzali, capo di Integrity Watch
Afghanistan, una Ong impegnata da un decennio a monitorare la disastrata situazione
del proprio Paese. Lui parla di ‘quid pro quo’ nel significato inglese
dell’accezione che sta per scambio di favori. Accadeva nel marzo scorso, quando
l’amministrazione Ghani annaspava fra liti interne al suo governo (col premier
Abdullah che non l’ha mai amato) e scarsa sicurezza del territorio. Dati
benevoli parlano del 10% di aree non controllate, ma vari osservatori
testimoniano una presenza talebana e una conflittualità in 15-16 province,
dunque su metà del suolo afghano. Ora la stessa stampa mainstream ammette che tale
presenza è ben superiore di quella del 7 ottobre 2001, quando George W. Bush
iniziò il grande gioco di guerra e gli alleati Nato lo seguirono a breve.
Perciò il piano, che
ufficialmente è stato definito ‘Joint way forward’, era pronto già a primavera,
prevede soldi in cambio di rimpatri. E l’Alto commissario Ue Federica Mogherini
non riesce a convincere neppure se stessa quando recita la parte della vestale
affermando: “Non c’è mai un legame fra i
nostri piani di aiuto e ciò che facciamo in materia di migrazione”. Dimentica
bene, dimentica l’operato della cancelliera Merkel quando prometteva aiuti
economici alla Turchia purché tenesse sul suo territorio i profughi siriani. Dunque
l’ennesimo presunto progetto internazionale, stavolta più influenzato dai mal
di pancia dell’Europa xenofoba di Visegrad che dallo stesso affarismo
espansivo, su cui incombe l’incognita dell’insicurezza del territorio. Le linee
guida dell’Unione restano ferree e l’uomo della Banca Mondiale, fatto
presidente a Kabul, incamera denaro solo se riporta a casa più della metà dei
176.000 afghani che nel 2015 sono giunti sul suolo europeo e hanno fatto
domanda d’asilo politico. Il 60% di loro ha ricevuto come risposta: nein! Il
numero degli afghani era anche più numeroso, 213.000 nel 2015. Nei mesi
dell’anno in corso non sono diminuiti, tanto che con 2.7 milioni rappresentano
la seconda popolazione in fuga per la vita dentro il ciclopico flusso migrante
di 65 milioni di anime.
C’è un particolare che i
benefattori occidentali fanno finta di non conoscere: rimpatriare gli afghani
significa ricondurli verso la morte, esporli alla guerra tuttora in corso in
quelle lande, alla fame e miseria incombenti che coinvolgono il 40% della
popolazione. Per ora l’apparato di Bruxelles, con Tusk in testa, ha mostrato
solo il volto benefico degli stanziamenti, non si son fatte cifre di migranti
da rimpatriare, né sono stati diffusi
dettagli sui voli del mesto ritorno. Cosa che mette in ansia gli stessi
funzionari governativi e quell’apparato burocratico di Kabul che vive
all’estero. Anche loro temono il rimpatrio dei familiari che gli vivono accanto.
Maiwand Rahyab, delegato a Bruxelles per l’Afghan
institute for civil society ha lanciato pubblicamente un grido di dolore: “I Paesi d’Europa devono sospendere la
possibile deportazione di rifugiati afghani. L’Unione Europea deve tener vivi i
valori e il rispetto dei diritti dei rifugiati fino al momento in cui quella
nazione non avrà la pace”. Oltre l’incolumità chi dovesse
rientrare non può che essere ringoiato nel buco nero della disoccupazione,
calcolato per difetto al 35%. E incrementare l’atavico, ma nuovamente
crescente, fenomeno della migrazione interna con cui s’abbandonano i luoghi di guerra per cercare rifugio in
altre province. Nella Kunduz contesa da Taliban e Anf, con strade deserte per
lo stato d’assedio, negozi chiusi, assenza di elettricità e acqua corrente, un
altro migliaio di famiglie sta trasmigrando a est verso Takhar. Ma non si sa
per quanto.
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