A
Kabul c’è un balletto in corso fra Yusuf Nuristani, tuttora a capo della
Commissione Elettorale Indipendente, e il premier Abdullah Abdullah, l’amico
per forza del presidente Ghani. Sappiamo quanto la diarchia afghana si regga
sulle stampelle statunitensi, stampelle fragili dopo la diminuzione delle
truppe d’occupazione, che comunque potrebbero tornare chiunque dovesse essere
il nuovo inquilino della Casa Bianca. Ma in queste ore la coppia deve fare i conti
col disturbatore Nuristani che propone per il prossimo 15 ottobre un bel
ritorno alle urne. Per concludere il ciclo elettorale con la designazione dei
consigli distrettuali, rimasti non assegnati dopo il caos seguìto al
conflittuale ballottaggio che aveva messo l’uno contro l’altro armati, non solo
metaforicamente, Ghani e Abdullah. Con loro i rispettivi warlords alleati.
L’atto amministrativo dovuto potrebbe riaprire il vaso di Pandora acquietatosi
con la spartizione del potere fra i vari boss della politica interna, tutti
comunque assillati dalla pressione talebana. L’anno e mezzo trascorso ha
mostrato la totale inutilità dell’accordo caparbiamente imposto da John Kerry,
cosicché per stabilità e affari Usa,
Cina, Pakistan e Afghanistan continuano a incontrarsi e a corteggiare talebani,
disponibili e riottosi.
L’idea
di rimandare alle urne gli afghani risvelerebbe il disamore raggiunto da
milioni di cittadini verso una farsa che li usa e li turlupina ancora una
volta. Perché a organizzare anche il potere locale ci sono i soliti potentati
che con pressioni e illeciti creano le liste e gestiscono il voto. L’appuntamento
metterebbe a nudo anche il controllo del territorio, visto che esercito e
polizia non riescono a garantire la sicurezza neppure nelle otto province prive
delle milizie talebane. Qualche commentatore rammenta come a base dell’accordo
politico fra Ghani e Abdullah ci fosse una mai praticata riforma elettorale.
Proprio Abdullah risulta un ferreo oppositore a operazioni di riforma guidate
dall’attuale Commissione Elettorale che lui vuole azzerare e sostituire in
toto. Nonostante l’accordo sottoscritto con Ghani ha il dente avvelenato per i
brogli praticati che avrebbero rovesciato le percentuali del primo turno
elettorale. In effetti il responsabile del conteggio di oltre tre milioni di
schede contestate (su sette milioni) Zia-Ul-Haq Amarkhail venne rimosso
dall’incarico per smarrimenti e sostituzioni di urne piene di schede votate.
Ciò che dovrebbe essere introdotto con una riforma: liste elettorali
affidabili, continua a risultare un meccanismo di difficile attuazione.
Così
tutto torna al punto di partenza e rischia il flop come nell’estate del 2014
col particolare, non secondario, di sprecare oltre 65 milioni di dollari necessari
per la macchina elettorale. Al solito più diplomatico di Abdullah, Ghani non s’è
pronunciato apertamente sulla proposta di Nuristani, ma anch’egli sottolinea la
necessità di trasformazioni che devono prevedere la revisione del Centro distribuzione dei seggi e
vari cambi: dei membri IEC, dei selezionatori della Commissione, della
tipologia di scheda. Per fare questo occorreranno più dei nove mesi con cui
Nuristani vuol portare il Paese al voto; lui dichiara di voler seguire l’iter
senza far cadere il governo (i consigli distrettuali portano i rappresentati
nella sola Camera Bassa), ma l’inquietudine è ampia e Abdullah chiosa che la
riforma passa per l’azzeramento della
Commissione Elettorale. Quest’ultima reagisce e ribadisce che l’Esecutivo non
può intervenire su una struttura indipendente perché l’iniziativa risulterebbe
antidemocratica. Dice pure che la Commissione è stata designata per sei anni.
Per amor di cronaca bisogna ricordare come la designazione venne fatta da
Karzai prima di lasciare la presidenza, cosa che Abdullah non dimentica insieme
ai brogli subìti nel 2009 e quelli del 2014.
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