Volendo disegnare la Turchia erdoğaniana in base ai dati
ufficial-ufficiosi delle amministrative - visto che le contestazioni di schede
sono numerosissime e diffuse - la lampadina arancione del Partito della Giustizia
e dello Sviluppo illuminerebbe tutta la penisola anatolica spolpata dei
contorni. Perché delle 81 province il ‘partito-regime’ ne prende 48, quasi
tutto il blocco centrale da nord e sud, lasciando il margine occidentale ai
repubblicani: Edirne, Çanakkale,
Smirne, Aydin, Mugla. E quello sudorientale al coriaceo corpaccione kurdo, dove
i 15 milioni della maggiore minoranza interna hanno votato copiosi per i propri
co-candidati, proseguendo la consolidata prassi di presentare come parità di
genere una coppia, ovviamente politica, in ogni municipalità grande e piccina.
Qualche macchia di territorio è andata agli ultranazionalisti del Mhp (Mersin,
Adana, Osmaniye) e altri scampoli fra Mar Nero (Bartin) e area caucasica
(Kars). Comunque residui, perché il gruppo di Devlet Bahçeli,
che pure la conta dei voti accredita d’un 17,6% nazionale, disegna contorni esclusivamente
nostalgici che non attraggono chi, giovane o meno, guarda alla vita e al
futuro.
Partiamo da quanto tuttora riempie le cronache: le denunce di brogli, schede manipolate e bruciate, i
ricorsi accettati, il conteggio riproposto e nuovamente ripetuto. Oltre ai noti
casi che assegnavano l’incarico di primo cittadino nelle metropoli di Istanbul
e Ankara, si sono registrate le proteste del Mhp ad Adana, del Chp ad Antalya, le
polemiche del Bdp a Ceylanpınar e Urfa, e quelle anti kurde dell’Akp ad Ağrı, e
se ne potrebbero citare ancora decine. E’ il segnale di quanta tensione questa
scadenza ha riversato in ogni angolo del Paese. Al di là dell’eccesso violento
che ha concluso nel sangue una faida familiare sul confine siriano, sono comparsi
gruppi, principalmente filogovernativi, di pressione psico-fisica pronti a
intimidire avversari, elettori e osservatori internazionali. Fatto di per sé
grave, in un ambiente politico che si picca di difendere il confronto
democratico. Ma la paura che il sogno e il segno del comando erdoğaniani potessero incrinarsi è stata davvero tanta, se
parecchi attivisti islamici sono ricorsi al marcamento a uomo con sgambetti,
spinte, calci degni delle più intimidatrici linee difensive del Fenerbahçe. In alcune
zone calde, come l’area del Kurdistan settentrionale, la protesta è scesa in
strada e la repressione l’ha seguita.
L’agenzia filo governativa Anadolou
cita la situazione di Şanlıurfa,
minicipalità conquistata dal Bdp e poi assegnata all’uomo del’Akp che ha portato alcune decine di
cittadini (kurdi) a far prendere aria al fucile e inneggiare al Pkk.
All’inverso questa comunità reclama l’opera minacciosa dei militari, nei seggi
durante il voto e ora nelle strade, presidiate e sottoposte a una legge
marziale di fatto che scioglie assembramenti a suon di lacrimogeni. Però, ben
oltre il singolo caso, il quadro dell’opposizione a Erdoğan, s’è mostrato perdente nello spirito prima che nei
numeri. Dell’ultradestra abbiamo detto: è presente ma ha fatto il suo tempo, qui
il conservatorismo assume altre forme. I repubblicani sono divisi fra un
laicato in linea con la tradizione kemalista poco comprensivo dei pruriti dei
giovani che guardano il suo versante, e una componente efficientista e moderata
che non trova nel partito spiragli di vera socialdemocrazia. Una buona parte
dei voti il Chp li raccoglie fra i ceti medi urbani e lungo le coste
mediterranee, fra la borghesia che parla due-tre lingue, è ipertecnologica e
vuole un Paese moderno. Icona che l’Akp lancia all’intera Turchia, ma coi toni
moraleggianti del grande capo sempre pronto a parlare d’interesse e sviluppo
nazionali, della grande famiglia raccolta sotto una bandiera e un modello. I
suoi. Una linea che cementa il proprio elettorato interclassista di affaristi e
manager, commercianti e semplici lavoratori, di gente delle campagne che ha
anch’essa cambiato volto negli ultimi vent’anni.
Costoro pensano che un centro commerciale valga molto più degli alberi che verranno sradicati
per fargli posto e i fatti, finora stanno dando ragione a Tayyip, il pianificanitore
consumista. Pochi pensieri gli dà un’ultrasinistra frazionata oltre che
perseguita come terrorista. Diverso l’ambiente kurdo il cui partito della Pace
e della Democrazia si conferma conquistando 10 province e 67 municipalità, ma
non sfonda il Hdp (Partito Democratico dei Popoli), il gruppo che si rivolgeva a
ogni etnìa dell’ovest turco. Con gli
avversari Erdoğan non dialoga, invece di convincere
propone aggregazioni e crea spaccature. Da più parti gli si fa notare come tale
polarizzazione, nella quale punta al 50% più qualcosa, potrà diventare un
boomerang. L’obiettivo di conseguire questa quota per la prima tornata delle
presidenziali se pure andasse in porto lascerebbe comunque una nazione divisa.
Con l’eventuale secondo passo, volto a sottomettere i poteri giudiziario e
legislativo al ruolo conquistato di super
presidente, che neppure Atatürk riuscì a essere, le tensioni socio-politiche salirebbero
ulteriormente. Da leader navigato Erdoğan sa che un Paese destabilizzato non è attrattivo per l’economia, il
business non fa rima col caos (l’Egitto insegna), l’allarme dei mercati esiste
eppure va avanti come un caterpillar. La popolarità del suo disegno era legata
a un rilancio nazionale che prometteva via pacifica e riforme, percorso finora
tortuoso, abbandonarlo per battaglie interne ed esterne può rivelarsi un
gravissimo errore. Il primo scotto è già evidente in politica estera, dove una
boutade del suo staff, credibile sino alla fine del suo secondo mandato (al mondo esistono due leader e mezzo: Erdoğan, Putin e …), è ora
improponibile.
Tuttora il sultano medita progetti istituzionali putiniani, ma di quel ‘mezzo leader’ che nella frase citata è
Obama potrebbe avere bisogno fuori dai propri confini. Lo sguardo rivolto da un
paio d’anni a est con velleità egemoniche regionali diventa sempre più
problematico in un Medio Oriente che ribolle. La cercata e detestata Unione
Europea resta matrigna verso la Turchia e la sua politica, e quello svariare da
certe partnership economiche guardando alla Shangai
Cooperation Organization, non è frutto di semplice ripicca ma d’un ‘piano
due’ che il sultano negli ultimi mesi ha cercato di lanciare riavvicinandosi a
Mosca e Teheran. In politica interna c’è da capire come il suo entourage
socio-finanziario reagirà agli attacchi sulla corruzione che potranno proseguire
riproponendo il logorio del conflitto. Un contrasto che Erdoğan non fugge anzi rinfocola contro gli ex sodali d’un
tempo, i gülenisti,
con cui si scambia bordate politico-giudiziarie. Lo scontro abbraccia tre
livelli: economico con le restrizioni al businness delle scuole private gestite
dal movimento Hizmet, ideologico-culturale riguardo a chi fra lui e il predicatore
migrato in Pennsylvania sia il depositario del modello dell’Islam moderato,
comunicativo e dei diritti per la repressione lanciata contro vari media, come
le testate di proprietà di Gülen, di cui si perseguono
anche i giornalisti.
La guerra della comunicazione coinvolge Zaman’s
Today e altri pezzi di quell’industria attraverso accaparramenti anche
recenti (il quotidiano Sabah, la rete
televisiva ATV) in cui sarebbe stato
favorito il fratello del genero del premier, ovviamente con un ritorno di
propaganda per l’Akp. Oppure gli attacchi al Doğan Group. Ma ogni tipo d’informazione diventa una
mina vagante per il suo orizzonte di gloria e su questo terreno Erdoğan mette in atto l’azzardo più grosso: azzerare la
libertà di comunicazione e di pensiero colpendo i social network come fa
qualsiasi dittatore refrattario alle critiche. Il divieto ha ricevuto il
profondo dissenso di Gül che, come altri membri dell’Akp, può sollevare uno scontro di linea nel
partito una volta terminato il mandato di Capo dello Stato. La Turchia che
risponde di pancia al richiamo patriottico-paranoico del premier gli ha dato ragione
nell’urna, considerando più importante la stabilità politico-economica che la
libertà d’espressione, ma come dicevamo l’economia non marcia spedita nelle
turbolenze. Se aggiungerà altri passi autoritari, quali la prevista legge che
per ragioni di sicurezza nazionale offre all’Intelligence lo strapotere di
controllo sulla cittadinanza, la nuova nazione che il presidente in pectore
promette sarà vicina alla democrazia solo in quella farsesca recita che sanno
darsi i regimi d’ogni latitudine.
Nessun commento:
Posta un commento