E’ uno spaccato utile per aggiornarsi, confrontare, capire frammenti di vita distanti due decenni. Quelli dell’Afghanistan delle Repubbliche fantoccio create e sostenute dall’Enduring Freedom statunitense e dell’Occidente intruppato nella Nato e l’attuale orizzonte del secondo Emirato Islamico con quattro anni di conduzione sulle spalle. Ce l’offre un report di Sharif Akram, ricercatore e collaboratore del network Afghanistan Analysts, che assembla testimonianze, dialoghi, incontri avuti per settimane con mercanti dei tempi andati e presenti, e alcuni miliziani talebani e cittadini che si sono schierati con loro, non solo negli ultimi mesi del 2021 affacciati sulla vittoria finale, ma durante la lotta per il potere. E’ significativo e inquietante che nessuna donna o comunque nessun pensiero, anche indiretto, del genere femminile appaia nel resoconto. Che illustra soprattutto, con la voce di protagonisti, cos’era e qual è il commercio odierno. Un modo per sbarcare il lunario o magari posizionarsi bene, poiché è indubbiamente la merce che fa la differenza, con tanto di prezzi e costi del materiale. Ma anche nel limitato business d’una panetteria, di cui parla più d’un intervistato, oggi si pagano meno tangenti dell’epoca di Kharzai e Ghani. Questo sostengono gli interpellati. “Anni addietro il mio negozio è stato chiuso perché ero di Wazakhwa (nel distretto di Paktika, zona a lungo controllata dai turbanti) e perché avevo la barba”. Mentre bazari, fermati un tempo come ora nei trasbordi fra le province, ricordano che polizia e miliziani filogovernativi erano più duri rispetto all’esercito nazionale contro cui i taliban combattevano. Attualmente, riferiscono gli intervistati, le province s’attraversano più facilmente, tutte e trentaquattro le province. Uno rivela che durante il governo Ghani si nascondeva e lavorava a Kabul, pur combattendo fra le file degli insorti. Lo faceva per campare, perché non sempre e non tutti i miliziani venivano sovvenzionati dal centro. E chi doveva pure mantenere la famiglia aveva necessità di lavorare. Dunque, militanza part time. Eppure nessuno l’ha scoperto. Per anni. Altri, a periodi, facevano addirittura la spola fra Emirati Arabi e monarchia saudita, perché lì il lavoro era certo. I combattenti-lavoratori venivano aiutati nell’espatrio e dovevano versare una quota del guadagno all’unità militare d’appartenenza. Questo è il passato.
Il presente vede egualmente la creazione di un’élite direttiva che, al di là del governo e del Gotha di Quetta, nutre con un lavoro statale una cerchia di filo taliban inseriti nell’occupazione statali. Né più né meno di quanto accadeva con gli esecutivi para occidentali. L’unica differenza sta nel numero dei posti disponibili che, per ragione di fondi, sono decisamente ridotti rispetto ai tempi d’oro della Repubblica. In aggiunta l’Emirato, impedendo la presenza di Ong internazionali o limitandole sensibilmente, non può offrire lavoro ai locali che le strutture non governative sempre privilegiano nei loro interventi. E allora ancora commercio. Il bazar, i mercati dislocati dove si può continuano a rappresentare un diffuso mezzo di sostentamento, se non si è contadini oppure coinvolti nei cantieri edili tuttora presenti e attivi. Un tempo erano ex Signori della guerra a controllarli, investendo sul mattone denari d’ogni provenienza. Certo, attualmente essere nel manico di figure di spicco della galassia talebana favorisce queste e altre imprese. Al di là dei recenti venti di guerra col governo di Islamabad, già due anni addietro l’amministrazione pakistana iniziava ad alzare steccati verso il confinante Emirato, non solo per ragioni ideologiche e securitarie sugli scambi di favori fra pashtun inturbantati lungo quella linea Durand. Di mezzo ci sono rifugiati e profughi, tutti afghani, che stazionano a milioni fra Peshawar e le pietraie del Khyber Pass. Il premier Sharif e il generale Munir non li vogliono più, è la punizione e il ricatto per il rifugio che i Tehreek-i Taliban ricevono dai seguaci di Akhundzada. Il rimpatrio fa aumentare la cittadinanza povera, tuttora esistente e impossibilitata a qualsiasi impresa. Ma il percorso delle interviste si snoda fra il ceto dei piccoli e medi mercanti, ciascuno afferma di riuscire a guadagnare cifre maggiori rispetto a un pur dignitoso stipendio statale, facendo il ristoratore (anche con piatti pakistani, sic), il sarto, il venditore di tessuti, addirittura di cosmetici e profumi della localmente nota azienda Al Makah Khushboo Mahal. Cosmetici? Pare di sì, probabilmente utilizzati in privato dalle mogli delle élite mercantili e politiche.
Insomma, per quella che si potrebbe definire una mutazione antropologica dei talebani d’Afghanistan quest’ultimi consumano e investono. Non sono più quelli del primo Emirato, almeno negli usi hanno tagliato i ponti coi princìpi del mullah Omar. Così si dice. Religiosi lo sono tuttora, ma non più diffidenti verso ambienti che finora rigettavano a priori. Il tempo scorre, e cambia. Sarà che la permanenza a Doha, dove dal 2010 stabilirono una propria agenzia all’epoca dei primi colloqui con gli Stati Uniti che volevano uscire da una situazione geopolitica e militare per loro ingovernabile, li ha plasmati verso i dollari? Certo è che taluni mercanti della capitale parlano addirittura di luoghi dove s’ostenta ricchezza. Le attività commerciali di lusso in aree come Shahr-e Naw e Wazir Akbar Khan (zona residenziale nord della capitale, dov’era l’ambasciata americana) luoghi dell’élite politica della Repubblica ora coinvolgono la classe emergente dell’Emirato. Vecchia situazione che ricorda l’altra faccia dell’imperialismo, quella dei beni di consumo che da un trentennio nel Vietnam si son presi la rivincita sulle sconfitte militari dell’Us Army. Accanto all’ostentazione della ricchezza appaiono trasformazione dei valori sociali e stili di vita. Ovviamente per cerchie ristrette che comunque danno lavoro al commercio citato. Addirittura con mode del caso: i copricapo alla Yaqubi e Muttaqi, rispettivamente ministro della Difesa e degli Esteri, diventano un fenomeno di cui magari fra qualche tempo s’occuperà Vanity Fair. Per ora, si dice, facciano tendenza fra i taliban che se lo possono permettere. I bazari intervistati sostengono che “durante la Repubblica la gente di Kabul non indossava quelle cose e non c'erano negozi che le vendessero. Molti funzionari erano soliti ordinare e acquistare i loro vestiti dall'estero”. Risulta che gli ex talebani, entrando nel settore privato urbano, si sono ampiamente adattati a un ambiente modellato da norme molto diverse da quelle alle quali erano abituati.
Chi li aveva visti in azione solo un quinquennio fa conferma che sono cambiati, influenzati da meccanismi globali e capitalistici: “Nei primi anni del potere talebano avevamo perso la maggior parte dei clienti che erano per lo più funzionari della Repubblica, stranieri o persone provenienti da Ong. Ora ne acquisiamo di nuovi dagli stessi talebani, gli uomini con i turbanti comprano esattamente le stesse cose”. Si registra anche un allentamento degli standard d’austerità, si cercano nomi, design e menu in stile occidentale. Addirittura? Sembra di sì. Magari non da parte delle figure più in vista dell’esecutivo islamista, ma dalla nuova casta affarista che li contorna, li segue, li ossequia, li venera. Come accade a qualsiasi potente. E i vertici lasciano fare? Parzialmente. Ci sono limiti, ad esempio nell’esposizione merceologica pure nei centri lussuosi della capitale le lingue ammesse sono pashtu e dari, l’inglese è vietato. Nella pubblicità non compaiono immagini umane come manichini, teste, figure di donna. Ridotta è la visibilità dei beni di consumo femminili di cui comunque i mercanti hanno parlato con tanto di marche di profumi. Però le attività ricreative, il cinema, le sale giochi non esistono, le restrizioni sulle società di media private, i divieti su musica e teatro, hanno costretto molte aziende a chiudere. Egualmente il veto al lavoro femminile ha prodotto il blocco di molte Ong che in alcuni casi erano diventate micro imprese sociali volte al sostegno di minori abusati e abbandonati e contrasto alla violenza di genere. Ma queste sono considerazioni, certamente fondamentali, fatte a margine, poiché i soggetti interpellati, tutti uomini, prevalentemente filo talebani e impegnati in attività commerciali, sebbene in alcuni casi di mercanzia alimentare e non pregiata, non offrivano valutazioni sulla nota dolente del nuovo corso talebano: la ferrea sottomissione ed emarginazione femminile.



