mercoledì 12 novembre 2025

La linea dell’autobomba

 


L’incrocio di autobombe nei centri pulsanti di Nuova Delhi, lunedì scorso, e di Islamabad, ieri, con un numero imprecisato di vittime in India e dodici accertate in Pakistan pone i due giganti demografici in condizione di allerta interno e di contrapposizione estera. Al punto che il premier e il ministro della Difesa pakistani si sono lanciati in accuse dirette, parlando rispettivamente di “terrorismo fomentato dall’India nella regione” e “stato di guerra latente”. Affermazioni trancianti che riportano la tensione all’ultimo scontro militare fra i due confinanti lontano solo di sette mesi. Più cauto, almeno finora, l’establishment di Delhi, con ministri in visita sul luogo dell’attentato (vicino allo spettacolare Forte Rosso) e fiducia nelle indagini in corso. Queste riferiscono del trasporto di materiale esplosivo nella vettura d’un medico kashmiro, smembrato dalla conseguente deflagrazione, e l’ipotesi d’un coinvolgimento, non si sa se diretto o casuale. La sua responsabilità sarebbe avvalorata dal fermo di due suoi colleghi custodi d’una vera santa barbara d’esplosivi. Ciascuno potrebbe essere colluso o collaboratore di gruppi fondamentalisti operanti nella regione, dove ad aprile nei pressi di Pahalgam s’è consumata una strage di turisti con una trentina di vittime, tutte indiane, in visita a un luogo di vacanza noto ormai come ‘la Svizzera indiana’. Lashkar-e-Tayyiba e Jaish-e-Mohammed sono i movimenti sospettati, ma senza prove concrete se non la loro propensione al jihad locale. Che è in crescita esponenziale dal 2019, quando una legge del governo Modi ha privato il Kashmir indiano della consolidata autonomia amministrativa a tutto svantaggio della cittadinanza di fede musulmana. Ecco i sospetti jihadisti sull’attentato nel centro di Delhi. 

 

Invece l’autobomba esplosa a ridosso del Tribunale distrettuale a Islamabad? Il governo pakistano punta il dito sull’India che favorirebbe i Tehreek-i-Taliban, spina nel fianco della dirigenza pakistana già dall’epoca della gestione politica di Nawaz Sharif, fratello dell’attuale primo Ministro Shehbaz. Il clan gestore della Lega Musulmana del Pakistan   che guida l’attuale governo, è cosa della famiglia Sharif, un partito islamico conservatore finito nel mirino dei jihadisti per ragioni di potere oltreché d’osservanza religiosa. Del resto un po’ tutto lo schieramento statale, dunque anche il partito della famiglia Bhutto che s’alterna storicamente alla dirigenza della nazione, considera khawarij gli appartenenti ai TTP, un termine spregiativo che indica chi ‘si separa dalla dottrina’. Costoro restituiscono lo spregio considerando infedeli (kafir) i presunti ortodossi. Questo in termini di conflitto dottrinale. Più prosaicamente sono la gestione amministrativa e il controllo del territorio a rinfocolare lo scontro fra le parti. Un ennesimo atto dei contrasti interni al Pakistan è il recente attacco al college militare di Wana, nel Waziristan meridionale. Regione dove il fondamentalismo islamico è radicato da tempo e neppure repulisti militari come la famigerata Zarb-e Azb, vera azione di guerra attuata nel giugno 2014 con bombardamenti aerei e l’evacuazione di 100.000 civili, sono riusciti a sradicare. Nei giorni precedenti all’esplosione di Islamabad la scuola di Wana è stata attaccata da un commando, probabilmente dei TTP, su cui ha avuto la meglio l’intervento dell’esercito, capace di sgominare il commando. Il governo ha lodato l’azione repressiva: “Le vite degli studenti sono state salvate con successo grazie alla perseveranza e alla competenza delle Forze Armate”. Eppure il timore che si potesse ripetere una strage come quella di Peshawar del dicembre 2014 (138 figli di militari uccisi) è stato enorme. Quell’eccidio, compiuto dai Tehreek-i-Taliban, costituiva la risposta alla Zarb-e Azb di sei mesi prima. In Pakistan la cenere continua palesemente a covare sotto il fuoco. E l’uscita anti indiana di Sharif non si basa su preconfezionati preconcetti. 

 

Esiste il realismo geopolitico delle ultime settimane con la visita ufficiale del ministro degli Esteri di Kabul Muttaqi all’omologo indiano Jaishankar, proprio a Delhi. Hanno parlato di commercio e aiuti umanitari, ma il ministro dell’Emirato proveniva da Mosca dove aveva incontrato colleghi russi, cinesi e pure pakistani per discutere fra l’altro delle infrastrutture internazionali da proporre sul territorio afghano, in opposizione agli interessi statunitensi di riprendere possesso della base aerea di Bagram, a sessanta chilometri dalla capitale. Ecco, al di là degli svariati argomenti di colloquio fra potenze mondiali e soggetti regionali, Islamabad vede come fumo negli occhi l’apertura politica indiana ai turbanti. Perché da tempo accusa l’attuale gestione dei taliban afghani di accogliere, proteggere, supportare i fratelli fondamentalisti pakistani, inaffidabili e soprattutto terroristi. La gestione dei recenti attentati può risultare totalmente autonoma, ma potrebbe ricevere il sostegno delle agenzie dei Servizi. Questo il ceto politico di Islamabad lo sa bene. Molti degli intrighi interni, recenti o lontani, sono passati attraverso la gestione della sua Inter Services Intelligence. Nella saggezza popolare: chi pensa male, vive male. Dunque i sospetti della leadership pakistana rispecchiano i propri complotti e adombrano i fantasmi di casa. Ma possono non essere lontani dalla verità. Infatti anche Modi, incarnando l’intransigenza induista agisce e traffica contro quella parte dell’India che non si riconosce nel fanatismo dell’hinduva abbracciata dal Bharatiya Janata Party. Lo dimostrano da tempo le campagne contro minoranze etnico-religiose e nazioni considerate antagoniste. Certo, un conto sono le congetture altro è il segno tangibile di quanto accade. Gli attentati gemelli che colpiscono la sicurezza dei bizzosi confinanti possono avere matrice autoctone e nessun collegamento. Ma la linea dell’intrigo può egualmente farci domandare a chi giova la destabilizzazione d’un tratto del continente asiatico, se non proprio ago della bilancia, contrappeso alla megalomania trumpiana sparsa per il globo.

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