sabato 12 luglio 2025

Simboli e lascito

 


Il fuoco purificatore con cui un manipolo di combattenti, ormai ex, quindici donne e quindici uomini del Partito Kurdo dei Lavoratori (Pkk) hanno arso le proprie armi in un braciere davanti a un più copioso manipolo di camere, microfoni e taccuini provenienti soprattutto dalla Turchia ma pure dal Kurdistan iracheno, tutti riuniti a Dokan, governatorato di Sulaymanniyya, segna un monito per il futuro. Quando Bese Hozat a nome del partito ha dichiarato: “Siamo qui per rispondere all'appello dello scorso febbraio del nostro leader Abdullah Öcalan e della risoluzione del XII Congresso del Pkk del maggio seguente. Distruggiamo volontariamente le armi, in vostra presenza, come un cenno di buona volontà e determinazione. Ci auguriamo che porterà pace e libertà e avrà risultati favorevoli per il nostro popolo, i popoli della Turchia e del Medio Oriente” taluni cuori si sono stretti e il fiato s’è fatto corto. Al pensiero delle tante vittime proprie, oltre quarantamila, e altrui, dopo quarantacinque anni d’opposizione dura al governo di Ankara. Incarnato da militari, governi repubblicani (negli ultimi vent’anni all’opposizione) e poi islamisti dell’Akp da qualche tempo riuniti ai nazionalisti del Mhp; combattendo sui monti dell’est anatolico, nei luoghi dove il Pkk è nato fra Lice e dintorni, pugnando coi kalashnikov e con le bombe, contro i carri armati dell’esercito, colpendo caserme e militari, battendosi nelle municipalità con sindaci e rappresentanti politici, spesso arrestati e pure trucidati insieme a interi villaggi da repressioni mirate e generalizzate. Un passato indimenticabile e insanguinato. Eppure nella cerimonia di ieri il membro del Congresso nazionale del Kurdistan Mohammed Amin diceva: "In Turchia, la Costituzione non riconosce ancora l'identità kurda. Non ci sono state opportunità per i kurdi che in questi decenni non hanno avuto altra scelta che combattere. Questa resistenza aveva i suoi obiettivi. Ma dopo cent’anni di negazione  oggi lo Stato turco sta prospettando un processo di pace”. Lo diceva non solo a favore di microfoni, ma al cospetto di testimoni, popolari e di rango, come alcuni esponenti del governo del Kurdistan iracheno e a quelli del Partito per l’Uguaglianza dei Popoli (Dem) che siedono nel Parlamento di Ankara.

 

"Se la Turchia concede diritti pacificamente, i kurdi accoglieranno questo passo... Oggi sono pronti a deporre le armi e consegnarle. A mio parere, la Turchia ha raggiunto un punto in cui non può sconfiggere militarmente il Pkk e i kurdi”. Sarà. Ma la realtà racconta altro. Dal 2016, Ankara è riuscita a bloccare il Pkk anche nella regione del Kurdistan dell'Iraq utilizzando tecnologie avanzate come droni e sistemi d’Intelligence, oltre a stabilire decine di avamposti militari che limitano la libertà di movimento e l'infiltrazione  attraverso il confine. Così il gruppo armato (terrorista non solo per i turchi, ma per gli esecutivi europei e statunitense) ha avuto spazi impraticabili per azioni anche dimostrative. L’ultimo attacco, nell’ottobre scorso a Kahramankazan, con due miliziani (organici? dissidenti? lo sanno solo a Qandil) che a volto scoperto hanno assaltato una struttura della Tusaş, la maggiore azienda aerospaziale turca, prima d’essere abbattuti dalla sicurezza e lasciare sul terreno  cinque vittime. Era già in corso la trattativa che ha portato all’odierna dismissione armata. Rashid Benzer, politico di Dem venuto dalla provincia di Sirnak, a sua volta ha ricordato: “Dal Duemila il Pkk ha dichiarato più d’una decina di cessate il fuoco, purtroppo nessuno è riuscito. Speriamo che questo sia quello buono e che i nostri amici siano rilasciati (il riferimento è a Demirtaş e agli altri detenuti dell’Hdp, ndr). Ringraziamo anche la regione del Kurdistan e i nostri amici peshmerga per il loro sostegno". Ovviamente voci favorevoli da parte delle menti turche dell’iniziativa pacificatoria, il presidente Erdoğan e l’alleato Bahçeli, quest’ultimo ha speso parole al miele per la leadership del Pkk che “ha tenuto fede all’impegno e ha riconosciuto a tempo debito le minacce globali e regionali". I prossimi obiettivi dell’accordo si concentrano sul reinserimento legale degli ex combattenti, sul loro rimpatrio, l'integrazione sociale e psicologica. Saranno compresi i padri nobili come Öcalan? Della sua liberazione dal supercarcere di Imrali finora nessuno ha parlato. Dovrebbero seguire il rientro nel Meclis dei deputati reclusi e l’autonomia amministrativa dell’est, in cambio del voto su un emendamento alla Costituzione che permetterebbe un terzo mandato presidenziale (sarebbe il quarto) per il Sultano. Ah, simboli… In politica ciascuno cerca il suo.

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