giovedì 4 luglio 2024

Iran, un voto conflittuale


Alla fine avranno ragione quei giovani che, interrogati sul ballottaggio presidenziale fra Pezeshkian e Jalili, ribadiscono l’astensione, proprio come al primo turno, perché la vera alternativa manca. Un’alternativa che non riguarda la prossimità o lontananza dal clero dei due candidati, fra i quali il gradimento dell’unico turbante in corsa, Mostafa Pourmohammadi, è rivolto al riformista. Un sostegno che nei conteggi del preliminare vale poco, duecentomila voti se pure questi si riversassero su Pezeshkian. Di maggior peso, nel distacco che il 28 giugno è risultato di circa un milione di schede a favore del candidato d’origine azera (come Khamenei), risulterebbero le preferenze raccolte da Ghalibaf e che lui stesso ha invitato a rilanciare su Jalili. Orientamenti di elettori attivi. Eppure nella consultazione di domani la partecipazione, scesa al 40% la più bassa nella storia elettorale della Repubblica Islamica, potrà diminuire ulteriormente se appunto il ‘fascino’ che qualche commentatore ha riservato a Pezeshkian per la sua apertura alle donne senza velo e alla ripresa delle trattative sul nucleare, non convoglierà verso i seggi gli incerti. Sicuramente mancherà la partecipazione del movimento “Donna, vita, libertà”, certamente andrà alle urne lo zoccolo duro del conservatorismo clericale e laico, ciascuno arroccato nei propri santuari di potere che sono le bonyad, gli enti di beneficienza che controllano un terzo dell’economia del Paese. Una nota dolentissima l’economia, che i contendenti cercano di rivitalizzare con formule opposte: riaprendo il dialogo con l’Occidente, soprattutto sul nucleare interno, Pezeshkian, per limitare il nodo scorsoio delle sanzioni. Cercando vie nuove Jalili, che contrario a qualsiasi compromesso sul programma di arricchimento dell’uranio rilancia la così definita “economia della resistenza”, avviata da tempo con gli scambi con la Cina, ribaditi ultimamente dalla mediazione saudita. Proprio così. 

 

I tempi cambiano, già durante la presidenza di Raisi l’adesione iraniana alla ‘Shangai Cooperation Organization’ ha tamponato i vuoti di mercanzia e di capitali che il boicottaggio del blocco euro-americano produce da decenni. Però diversi studiosi fanno notare come le aperture asiatiche non abbiano prodotto effetti concreti sull’economia. Magari i banchi dei bazari non risultano sprovvisti di mercanzia, non tanto quella interna ma quella derivante dai commerci internazionali, come pure non lo sono del tutto i magazzini di certe industrie. Quel che si vede poco sono gli investimenti. E nei duetti televisivi delle ultime ore che cercano di far presa sull’elettorato comunque deciso a non disertare, giungono le punzecchiate provocatorie: “Il nostro Paese vende il greggio alla Cina, ma con enormi sconti e soprattutto in cambio di beni, non di valuta estera”. E’ Pezeshkian che fa le pulci all’avversario, sapendo bene di non poter proporre molte alternative. Quei contratti parzialmente capestro, evitano alla gestione domestica di tracollare. Lui, qualora venisse eletto, ha fatto sapere di investire Ali Tayebnia del ruolo di ministro dell’Economia. Si tratta d’un elemento prestigioso, accademico, che ha ricoperto quel ruolo dal 2013 al 2017 sotto Rohani, avviando un contenimento dell’inflazione. Altro momento. Le aperture occidentali dell’epoca finirono azzerate da Trump che, da presidente, volle il disimpegno dalla trattativa sul nucleare e più tardi fece aprire il fuoco su un uomo simbolo per la nazione: il generale Soleimani, centrato da un drone. Così conteranno ben poco le promesse di sgravi fiscali con cui Pezeshkian ha costellato il primo e secondo turno della campagna elettorale. L’aria che si respira, anche per espressa volontà dello storico nemico israeliano, offre a Jalili, ai principialisti, agli stessi possibili alleati del partito dei Pasdaran argomenti che raccolgono l’attenzione di chi vota  e inesorabilmente anche di chi ha deciso d’astenersi.  

martedì 2 luglio 2024

Comunardo, il calciatore della Storia

 


Dove guardava Niccolai quando lanciava la crapa, pronta a spelarsi già a ventiquattr’anni, su un pallone che poi gonfiava la propria rete? L’emblematico faccia a faccia, lui poggiato al palo della porta, Albertosi a braccia aperte a imprecare, è rimasto immortalato in un’immagine che supera nella sconsolatezza i versi di Saba sul portiere “caduto alla difesa ultima vana”. L’estremo difensore cagliaritano non “cela la faccia contro terra” indirizza un sicuro improperio al compagno che ne aveva vanificato l’uscita esibendosi nel più celebrato dei suoi autogoal. Accadeva contro la Juventus, una pericolosa concorrente per lo scudetto del 1970 che, nonostante quello e altri inciampi, il Cagliari Calcio si cucì sulla maglia. Era goffo Niccolai? Talvolta sì, ma per eccesso di zelo difensivo, lui che era al centro dell’area e doveva spazzarla, come insegnava più il calcio d’una volta che quello del filosofo della panchina Scopigno, fumatore incallito al pari di certi suoi calciatori. Un aneddoto lo vuole, da poco giunto in società, perlustrare il luogo del ritiro e trovarvi gli atleti infoiati in un pokerino con sigarette e whisky sui letti. ”Dispiace se fumo?” disse il mister, colpendoli a tal punto che tutti rientrarono nelle stanze e nei ranghi senza trasgredire. Poi, non è un segreto, qualche sigaretta di troppo non mancava al cannoniere di quella squadra, lui che l’aerobìa la distribuiva solo in quindici metri, ma per fare in quel fazzoletto cose che gli umani sugli spalti difficilmente avrebbero rivisto. In quel Cagliari del miracolo c’erano campioni come Gigi Riva, Angelo Domenghini, Pierluigi Cera, Claudio Olinto de Carvalho in arte Nené, e buoni gregari - Martiradonna, Tomasini e appunto Niccolai che stupiva per certi improvvidi, autolesionistici passi e per il nome. Comunardo. Uno della Comune, prima del comunismo stesso. E’ grazie a quel nome che taluni ragazzini s’infilarono sin dalla scuola media in un pezzo di Storia, celata pure negli studi accademici. Sicuramente a vergogna delle stragi conseguenti. 

 

Sempre i racconti, stavolta familiari, dicono che il babbo Niccolai, Lorenzo, sportivo anch’egli, portiere tutto fegato e cuore a Livorno, la città del Teatro Goldoni e della nota scissione comunista di Bordiga e Gramsci, per amore antifascista avesse voluto identificare il figliolo con uno di quei nomi dell’epica ideologica, caduti poi in disuso con le ventate del boom economico, quando il consumismo aveva definitivamente scalzato il comunismo. A quel punto Comunardo era cresciuto, s’era gettato nella mischia pallonara nella nativa Toscana, giovanili del Montecatini per poi sbarcare nell’isola, Torres e dal 1964 Cagliari, che voleva anche dire il massimo campionato. Sempre da difensore, sempre a centro area, con 174 centimetri dignitosi all’epoca per uno stopper. Calciatore normale, nonostante il primato della stagione 1969-70 e addirittura una convocazione in Nazionale, in quell’annata d’oro segnata dai Mondiali in Messico che fecero sognare i tifosi di tutt’Italia. Niccolai si fermò all’esordio, bloccato da un infortunio dopo mezz’oretta di partita. I superstiziosi tiravano un sospiro di sollievo, non l’Albertosi portiere che dall’isola era passato a difendere la rete azzurra, e trovò nell’incertezza di Poletti l’ennesima beffa sotto porta che poteva inceppare la Storia. Non accadde. Nella memorialistica resta l’Italia-Germania 4-3. Nelle personali memorie, in virtù proprio del nome Comunardo, restano le vicende d’un secolo prima. Le fervide giornate del 18 marzo (1871) all’Hôtel de Ville parigino che accoglie gli insorti - i comunardi - che abolivano l’esercito e armavano il popolo, bloccavano gli sfratti, separavano lo Stato dalla Chiesa (l’aveva già fatto la rivoluzione dell’89, ma erano giunti Napoleone, il Congresso di Vienna e Napoleone III), creavano un’istruzione laica e gratuita, e cooperative operaie e camere sindacali femminili. Ma presto si profilavano di cannoni del maresciallo Mac-Mahon a spezzare le ultime resistenze popolari di Belleville e del cimitero di Père-Lachaise, monumentale già allora con la tomba, fra gli altri, di Balzac. All’aristocrazia e ai militari assetati di sangue non bastava la disfatta della Comune, cercavano vendetta e continuarono per settimane a fucilare comunardi ribelli. A migliaia. La Comune di Parigi “governo della classe operaia, nella quale si poteva compiere l'emancipazione economica del lavoro”, dice Marx l’avremmo incontrata negli studi storici, eppure Niccolai, il calciatore dell’autogoal segnato da quel nome e da oggi riunito a Gigi, ci apriva gli occhi quand’eravamo poco più che bambini.